Capire le emozioni
Una non brevissima storia delle emozioni, o meglio di come si cerca di capirle
Mi considero una persona molto emotiva. Lo sono sempre stata, anche se nel tempo ho imparato – a volte faticosamente – a stare dentro le emozioni senza esserne travolta.
La mia sensibilità, che spesso mi ha fatto sentire "troppo" – troppo fragile, troppo intensa, troppo complicata – è anche ciò che mi ha permesso di entrare in contatto profondo con il mondo, con le persone, con le mie scelte. Forse è per questo che ho sempre avuto il desiderio di capire che cosa sono davvero le emozioni.
Da qualche anno, accanto alla mia formazione accademica, studio e insegno yoga. E proprio lo yoga, pur essendo una disciplina antichissima e apparentemente lontana dalla scienza occidentale, si è rivelato pieno di strumenti straordinariamente precisi per regolare il nostro sistema nervoso e creare spazio dentro le esperienze emotive.
Penso al respiro, che nello yoga non è solo aria che entra ed esce, ma un ponte tra corpo e mente. Penso al radicamento e alla centratura nella postura, che ci restituiscono un senso di orientamento interno anche quando fuori tutto vacilla. Penso al silenzio, che ci educa a osservare prima di reagire.
Tutto questo mi porta a voler integrare sempre di più il linguaggio dell’esperienza di una tradizione che ho adottato, con quello della conoscenza della tradizione in cui sono cresciuta. Integrazione.
Per questo, oggi vorrei condividere un piccolo saggio che ho scritto per ricostruire l’evoluzione storica delle teorie psicologiche sulle emozioni. Un viaggio che parte da Darwin e arriva ai modelli cognitivi e sociali, e che, in fondo, parla sempre della stessa cosa: il bisogno di dare senso a ciò che sentiamo. Anche quando non riusciamo a spiegarlo fino in fondo.
L’evoluzione delle teorie psicologiche sulle emozioni
Le emozioni sono state a lungo oggetto di studio in psicologia, con diverse teorie che nel tempo hanno cercato di spiegare che cosa sono le emozioni, come nascono e a cosa servono. Nel corso della storia, l’attenzione degli studiosi si è spostata da spiegazioni di tipo biologico-evoluzionistico a teorie focalizzate sulle reazioni fisiologiche del corpo, fino a includere i processi cognitivi e sociali. Partiamo dalle origini evoluzionistiche.
Origini evoluzionistiche
Charles Darwin (1872) è uno dei primi studiosi ad affrontare sistematicamente il tema delle emozioni in chiave scientifica. Nel suo libro L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), Darwin propone un’analisi comparata delle espressioni emotive tra specie diverse e tra culture umane. Egli interpreta le emozioni come processi innati di origine evolutiva, sostenendo che le espressioni facciali e corporee legate alle emozioni hanno funzioni adattive.
In altre parole, secondo Darwin molte reazioni emotive (come spalancare gli occhi per la sorpresa, mostrare i denti per la rabbia, o rabbrividire per la paura) si sono evolute perché erano utili alla sopravvivenza o alla comunicazione: ad esempio, una smorfia di disgusto protegge dall’ingerire cibi nocivi, mentre un’espressione di paura segnala pericolo ai propri simili. Darwin evidenzia anche la universalità di alcune espressioni emotive fondamentali: persone di culture lontane e persino alcuni animali mostrano reazioni simili in situazioni emotigene analoghe, suggerendo una base comune.
Questa prospettiva evoluzionistica, nel contesto scientifico di fine Ottocento, era innovativa perché estendeva i principi dell’evoluzione biologica al campo delle emozioni e del comportamento umano, rompendo con l’idea che le emozioni fossero fenomeni puramente spirituali o culturali. L’analisi di Darwin, condotta tramite osservazioni dirette e raccolta di testimonianze da diverse parti del mondo, getta dunque le basi per l’idea che le emozioni abbiano radici biologiche profonde e che alcune manifestazioni emotive siano condivise universalmente dall’umanità (e in parte con altri animali).
Dopo Darwin, per alcuni decenni l’interesse per l’aspetto evolutivo delle emozioni passò in secondo piano, anche a causa dell’ascesa della psicologia comportamentista (che evitava di occuparsi di processi “interni” come le emozioni). Tuttavia, la prospettiva darwiniana fu ripresa e confermata nel XX secolo grazie alle ricerche di Paul Ekman e Wallace Friesen. Negli anni ’60 e ’70, Ekman e Friesen condussero studi pionieristici sulla comunicazione non verbale delle emozioni in diverse culture. In celebri esperimenti cross-culturali, mostrarono a individui di vari popoli fotografie di volti umani raffiguranti emozioni e chiesero di riconoscerle: emerse che sei emozioni di base – felicità, tristezza, paura, rabbia, sorpresa e disgusto – vengono identificate in modo analogo da persone provenienti da culture anche molto differenti (includendo culture isolate senza contatti con l’Occidente). Questo risultato era in accordo con le ipotesi di Darwin sull’universalità delle espressioni emotive.
In altri termini, gli esseri umani condividono un “linguaggio facciale” delle emozioni di base, frutto dell’evoluzione. Allo stesso tempo, Ekman riconobbe che fattori culturali modulano l’espressione delle emozioni: introdusse il concetto di display rules (“regole di esibizione”), ovvero norme sociali apprese che ci insegnano quando e come è appropriato mostrare una certa emozione in pubblico. Ad esempio, in alcune culture (quella giapponese, per esempio) può essere scoraggiato manifestare apertamente tristezza o rabbia in certe situazioni, nonostante l’emozione di base sia universale.
Il contributo di Ekman e Friesen, sul finire del ’900, ebbe un forte impatto: da un lato rivalutò il pensiero di Darwin, confermando scientificamente l’innatismo di alcune reazioni emotive; dall’altro, inserì l’emozione in un quadro bio-sociale più complesso, in cui a una base universale si sovrappongono influenze apprese. Questa integrazione rispecchiava il clima della psicologia degli anni ’70, attenta sia alle radici biologiche del comportamento sia alle dinamiche sociali e culturali. In sintesi, la prospettiva evoluzionistica inaugurata da Darwin e rinvigorita da Ekman & Friesen ci insegna che almeno alcune emozioni (soprattutto quelle fondamentali legate alla sopravvivenza) sono parte integrante della nostra natura biologica, plasmata dalla selezione naturale, e si manifestano con espressioni riconoscibili a qualsiasi latitudine – anche se la cultura può plasmarne le modalità espressive. Questo filone ha trovato applicazioni attuali, ad esempio nell’addestramento al riconoscimento delle micro-espressioni facciali (utile in ambito forense o clinico) e nello sviluppo di tecnologie di “affective computing”, in cui i computer cercano di riconoscere le emozioni umane dai volti sul modello dei pattern di Ekman.
Ho paura perché tremo
Alla fine dell’Ottocento, quasi contemporaneamente all’approccio evoluzionista, emersero le prime teorie scientifiche sul meccanismo di generazione delle emozioni. Queste teorie sottolineavano il ruolo delle reazioni fisiologiche del corpo come base dell’esperienza emotiva. In particolare, lo psicologo e filosofo William James e, indipendentemente, il fisiologo Carl Lange proposero quella che è nota come la teoria James-Lange dell’emozione. Intorno al 1884-1885, James e Lange formularono l’idea rivoluzionaria che “non tremiamo perché abbiamo paura, ma abbiamo paura perché tremiamo”. In altre parole, secondo la teoria James-Lange ciò che chiamiamo emozione non è altro che la percezione delle modificazioni corporee provocate da uno stimolo eccitante. Quando accade qualcosa di emotivamente significativo (un pericolo, una perdita, un evento gioioso), il nostro corpo reagisce automaticamente con una serie di cambiamenti viscerali e muscolari (ad esempio aumento del battito cardiaco, sudorazione, tensione muscolare, espressioni facciali, ecc.). Solo successivamente la nostra mente prende coscienza di questi cambiamenti fisiologici e, proprio percependo quelle reazioni corporee, sperimentiamo l’emozione corrispondente (paura, tristezza, gioia…).
James descrisse vividamente questo processo con l’esempio del vedere un orso nel bosco: la reazione immediata è correre via e avvertire il cuore battere all’impazzata; la sensazione di paura è la presa di coscienza di quel corpo che fugge e del cuore che batte. Questa teoria è anche chiamata teoria periferica (o viscerale) dell’emozione, perché attribuisce alla periferia del corpo (viscere, sistema nervoso autonomo) il ruolo primario nel far scaturire il sentimento emotivo. Storicamente, la proposta di James (pubblicata in forma di articolo nel 1884 e poi ripresa nei suoi Principles of Psychology del 1890) sfidava la concezione comune e accademica dell’epoca, che vedeva le emozioni come stati mentali “puri” generati direttamente dall’esperienza psicologica. James, influenzato dal clima positivista e dall’interesse per la fisiologia, sosteneva invece un legame imprescindibile tra corpo e mente nelle emozioni: egli arrivò a dire che, se sottraessimo completamente le sensazioni corporee da un’emozione, quella emozione non potrebbe più esistere se non in forma molto attenuata.
La teoria James-Lange ebbe un grande merito: enfatizzò il ruolo del corpo nei processi emotivi e stimolò la ricerca sulle correlazioni fisiologiche delle emozioni (ad esempio studiando i cambiamenti cardiovascolari, ormonali, espressivi associati a diverse esperienze emotive). Tuttavia, presentava anche dei limiti: critici osservarono che diverse emozioni producono risposte fisiologiche simili (sia la rabbia sia la paura accelerano il battito cardiaco, ad esempio), dunque le sole sensazioni viscerali non sembravano poter distinguere con chiarezza quale emozione si stesse provando. Inoltre, le reazioni corporee spesso sono lente o possono essere indotte artificialmente (si pensi a un’iniezione di adrenalina) senza generare per forza un’emozione cosciente specifica. Queste obiezioni prepararono il terreno per teorie alternative.
Tremo perché ho paura
Agli inizi del ’900, infatti, uno studio critico di Walter Cannon mise in discussione la teoria James-Lange e propose una visione differente, incentrata sul ruolo del sistema nervoso centrale. Cannon, un fisiologo, osservò che le risposte viscerali dell’organismo sono relativamente lente e poco specifiche, mentre noi spesso sperimentiamo emozioni in modo rapido e distinto. Inoltre, Cannon condusse esperimenti sugli animali: scoprì ad esempio che separando chirurgicamente i visceri dal sistema nervoso centrale (vagotomia o spinalizzazione in animali da laboratorio) gli animali continuavano a mostrare comportamenti emotivi di base (come atteggiamenti di rabbia o paura) anche in assenza dei feedback corporei periferici. Cannon notò anche che l’iniezione di adrenalina in esseri umani provoca sintomi fisici (tremori, tachicardia) simili all’ansia o alla paura, ma non necessariamente la persona sperimenta realmente paura o ansia intense soltanto per questi cambiamenti indotti artificialmente. Sulla base di queste evidenze, nel 1927 Cannon formulò, insieme al collega Philip Bard, la teoria Cannon-Bard (nota anche come teoria centrale dell’emozione). Questa teoria postula che non è il corpo a provocare la mente, bensì il cervello a provocare simultaneamente sia la reazione corporea sia l’esperienza emotiva cosciente. In termini semplici, di fronte a uno stimolo emotivamente significativo, il nostro sistema nervoso centrale (Cannon individuò in particolare una regione profonda del cervello, il talamo, come sede cruciale) analizza rapidamente la situazione e attiva in parallelo due cose: una risposta corporea generale (attraverso il sistema nervoso autonomo, ad es. “scarica adrenergica” o quella che Cannon chiamò reazione d’emergenza di attacco-fuga) e, allo stesso tempo, genera la sensazione soggettiva dell’emozione nella corteccia cerebrale. Dunque, vedendo l’orso nel bosco, la teoria Cannon-Bard suggerisce che il cervello (talamo e altre strutture) elabori immediatamente l’informazione “orso = pericolo” e simultaneamente invii segnali al corpo (provocando tachicardia, fuga) e alla parte cosciente (provocando la percezione della paura).
L’emozione nasce nel cervello come evento centrale, e le modificazioni corporee ne sono un effetto concomitante, non la causa scatenante. La teoria Cannon-Bard (anni ’20) si inserisce in un clima in cui la psicologia e la fisiologia stavano esplorando attivamente le basi neurali delle emozioni: successivamente, negli anni ’30, fu proposta ad esempio la teoria del circuito di Papez e più avanti quella del sistema limbico (MacLean) come sistemi cerebrali dell’emozione. Cannon-Bard fu fondamentale perché sottolineò l’importanza del cervello (in contrapposizione all’importanza del cuore, visceri e muscoli sostenuta da James-Lange) e riconobbe che l’arousal fisiologico spesso è aspecifico (cioè uno stato di attivazione generale che caratterizza molte emozioni). Uno dei limiti di Cannon-Bard era l’eccessiva semplificazione nell’indicare il talamo come centro unico: ricerche successive hanno mostrato che molte aree cerebrali (amigdala, corteccia prefrontale, etc.) sono coinvolte e che il processo è più distribuito. Inoltre, Cannon-Bard si concentrava sul circuito biologico interno, senza considerare il ruolo dell’interpretazione psicologica dell’evento – un aspetto che emergerà nelle teorie cognitive successive.
Parallelamente agli sviluppi teorici su base fisiologica, nel 1908 fu scoperto un principio importante che lega l’intensità dell’attivazione emotiva alle prestazioni. Gli psicologi Robert Yerkes e John D. Dodson documentarono quello che oggi chiamiamo legge di Yerkes-Dodson. Questa legge, derivata da esperimenti su animali e poi confermata anche in contesti umani, descrive una relazione a forma di U rovesciata tra il livello di arousal (attivazione fisiologica/emotiva) e la performance in un compito. In sintesi, un livello moderato di attivazione conduce alle prestazioni migliori, mentre livelli troppo bassi o troppo alti di arousal peggiorano la performance. Ad esempio, nell’affrontare un esame o una gara sportiva, uno stato di lieve ansia o tensione può essere benefico perché motiva e concentra (senza un po’ di attivazione ci si sentirebbe apatici o distratti); al contrario, se l’ansia è eccessiva (tremenda agitazione, panico) la performance tende a deteriorarsi (black-out, errori dovuti alla sovraeccitazione). Yerkes e Dodson mostrarono quindi che le emozioni non influenzano solo la nostra esperienza interna, ma anche il nostro comportamento e rendimento: troppa poca emozione può essere problematica tanto quanto troppa emozione.
Questo risultato, sebbene non sia una “teoria delle emozioni” in senso esplicativo, ha un valore storico-scientifico rilevante perché introdusse il concetto che la dimensione quantitativa dell’emozione (intensità di arousal) è cruciale. Nel panorama della psicologia del primo ’900, dominato dall’approccio sperimentale e dalla misurazione del comportamento, la legge di Yerkes-Dodson integrava lo studio dell’emozione con quello della motivazione e dell’apprendimento, ponendo basi per ricerche successive sullo stress - in contrasto con la teoria della disorganizzazione delle emozioni (Janet, Claparede, Bindra, prima metà del ‘900, secondo cui la motivazione è funzionale e l’emozione disfunzionale. Ancora oggi questo principio trova applicazione: ad esempio, in ambito lavorativo e formativo si cerca di mantenere un livello di stimolazione ottimale per evitare sia il calo di interesse (basso arousal) sia il burnout da eccesso di pressione (alto arousal), evidenziando una continuità con il concetto di eustress (stress “buono”) vs distress (stress dannoso).
Queste intuizioni preparano il terreno per le teorie successive, che cercheranno di spiegare come mai, a parità di attivazione fisica, possiamo provare emozioni diverse – introducendo quindi il ruolo della mente e del contesto cognitivo e sociale.
Prospettive cognitive e sociali
A partire dagli anni ’60 del Novecento, con la cosiddetta “rivoluzione cognitiva” in psicologia, gli studiosi iniziarono a porre l’accento sui processi mentali nell’interpretazione delle emozioni. Le teorie cognitive delle emozioni propongono che ciò che proviamo dipenda non solo dai segnali biologici, ma anche da come interpretiamo e attribuiamo significato a ciò che accade sia fuori che dentro di noi. In parallelo, si iniziò a riconoscere l’importanza del contesto sociale nel modulare l’esperienza emotiva. In questo filone rientrano contributi fondamentali come la teoria bifattoriale di Schachter e Singer, gli studi di Marshall e Zimbardo, le ricerche di Christina Maslach, la teoria dell’appraisal cognitivo di Lazarus e le idee di Robert Zajonc sul primato delle reazioni affettive.
Stanley Schachter e Jerome Singer (1962) introdussero la teoria dei due fattori (two-factor theory) dell’emozione, uno dei primi modelli a integrare esplicitamente fisiologia e cognizione. Questa teoria parte da una domanda: come mai uno stesso stato di attivazione corporea (ad esempio il cuore che batte forte) può essere esperito come emozioni diverse in momenti diversi? Schachter e Singer proposero che l’emozione che proviamo risulta dall’interazione di due componenti: 1) l’attivazione fisiologica e 2) l’interpretazione cognitiva di tale attivazione. L’attivazione corporea fornisce l’intensità dell’emozione (quanta emozione si prova), ma è la mente che, valutando la situazione, attribuisce un’ “etichetta” emotiva a quell’arousal (determinando quale emozione si prova).
Per mettere alla prova questa idea, Schachter e Singer svolsero un esperimento diventato classico: somministrarono ad alcuni partecipanti un’iniezione di adrenalina (un attivatore fisiologico che induce tachicardia, tremori, ecc.), dicendo però che si trattava di un semplice farmaco per test della vista. Ad alcuni di questi soggetti fu spiegato correttamente che avrebbero potuto sentirsi agitati per gli effetti fisiologici dell’iniezione (dando quindi una spiegazione non emotiva ai loro sintomi); ad altri non fu data alcuna spiegazione (o una spiegazione falsa che non giustificava quei sintomi). Successivamente, i partecipanti furono messi in una stanza con un complice sperimentale (un attore) che si comportava in modo euforico e scherzoso oppure, in un’altra condizione, irritabile e arrabbiato. I risultati mostrarono che i soggetti privi di spiegazione per la propria attivazione tendevano ad “assumere” lo stato emotivo suggerito dal contesto: chi era con il complice euforico riferiva sensazioni di allegria e divertimento, chi era con quello ostile riferiva emozioni negative come irritazione, attribuendo quindi la propria attivazione interna alla gioia o alla rabbia a seconda dei casi. Invece, i soggetti a cui era stata spiegata la causa fisiologica (l’iniezione) riportavano meno emozioni influenzate dal complice, interpretando il proprio batticuore come semplice effetto del farmaco e non come emozione reale. Questo esperimento fu interpretato come evidenza che l’arousal corporeo, se non ha una spiegazione ovvia, viene “etichettato” dall’individuo basandosi sugli indizi situazionali disponibili, producendo l’esperienza emotiva cosciente. In altri termini, per provare un’emozione intensa servono sia il corpo attivato sia la mente che interpreti: il corpo da solo (come nei soggetti informati dell’iniezione) dà “energia” ma non qualità emotiva specifica; la mente da sola (senza attivazione corporea, ad esempio un soggetto placebo senza adrenalina) può giudicare la situazione interessante o irritante, ma l’emozione risulterà blanda.
La teoria di Schachter e Singer segnò una svolta storica: introdusse esplicitamente i fattori cognitivi e sociali (la presenza dell’altro e la valutazione del contesto) nella spiegazione delle emozioni, in un’epoca (primi anni ’60) in cui la psicologia cognitiva muoveva i primi passi. Viene spesso ricordato che “con essa nasce il cognitivismo nelle emozioni”, poiché fino ad allora le teorie dominanti (James-Lange, Cannon-Bard) non consideravano il ruolo dei pensieri o dell’ambiente sociale nel generare l’emozione. La teoria bifattoriale mostrava anche una somiglianza con l’intuizione di Cannon-Bard: Cannon sosteneva che le risposte fisiologiche sono simili in molte emozioni e che quindi da sole non bastano a spiegare le differenze qualitative – Schachter e Singer di fatto concordarono, aggiungendo che a differenziare le emozioni provvede l’interpretazione cognitiva della situazione.
Tuttavia, la teoria dei due fattori presentava anche limiti e suscitò critiche. Anzitutto, ci si chiese se i risultati fossero generalizzabili: è sempre vero che quando non sappiamo spiegare una sensazione fisica la etichettiamo come un’emozione suggerita dal contesto? Alcuni studi successivi faticarono a replicare pienamente l’effetto. Ad esempio, Marshall e Zimbardo (1979) tentarono una parziale replica dell’esperimento di Schachter e Singer introducendo specificamente un complice euforico (per riprodurre la condizione di gioia contagiosa) e monitorando la reazione dei partecipanti. I loro risultati furono meno netti di quelli originali e considerati “controversi”: l’influenza del complice sullo stato emotivo riferito dai soggetti risultò presente ma meno consistente del previsto, suggerendo che l’effetto potrebbe dipendere da variabili aggiuntive (personalità dei soggetti, situazione sperimentale, intensità dell’arousal, ecc.).
Allo stesso modo, Christina Maslach (1979) condusse uno studio correlato usando un approccio alternativo: indusse nei partecipanti uno stato di attivazione fisiologica tramite ipnosi (anziché con un farmaco) e valutò come questo arousal “inspiegato” venisse etichettato emotivamente in differenti contesti. Anche in questo caso, i risultati non confermarono pienamente le predizioni della teoria bifattoriale, mostrando risposte emotive meno chiare e in parte inconsuete. Questi tentativi di replica (noti nella letteratura dell’epoca, con lo stesso Schachter che commentò tali studi nel 1979) fecero emergere una verità importante: la teoria di Schachter e Singer coglie un principio reale – l’interazione tra fisiologia e cognizione – ma potrebbe averne sovrastimato la generalità e la semplicità.
Non sempre nella vita quotidiana etichettiamo consapevolmente il nostro arousal, e non sempre ci lasciamo influenzare così facilmente dalle circostanze sociali; entrano in gioco fattori come la nostra consapevolezza interna, l’ambiguità della situazione, le aspettative e persino differenze culturali. In sintesi, la teoria bifattoriale fu fondamentale perché dimostrò sperimentalmente il peso dei fattori cognitivi e sociali nella genesi delle emozioni, ponendo le basi per successive teorie cognitive più raffinate, ma allo stesso tempo venne affinata e in parte ridimensionata da ricerche come quelle di Marshall, Zimbardo e Maslach sul finire degli anni ’70.
Lazarus e la teoria dell'appraisal: valutare per sentire
Mentre Schachter e Singer elaboravano il loro modello, un altro psicologo stava gettando le basi di una teoria cognitiva ancora più ampia delle emozioni: Richard Lazarus. Già dalla fine degli anni ’50 Lazarus era interessato a come gli individui valutano cognitivamente le situazioni e come ciò influisce sulle loro reazioni emotive e sullo stress. La sua idea centrale, sviluppata compiutamente negli anni ’60 e ’70, è la teoria della valutazione cognitiva (cognitive appraisal theory). Secondo Lazarus, le emozioni nascono dal modo in cui interpretiamo e giudichiamo un evento in rapporto al nostro benessere e ai nostri scopi personali. Egli articolò il processo di valutazione in due fasi principali: la valutazione primaria e la valutazione secondaria. Nella valutazione primaria, valutiamo se una data situazione o stimolo riguarda i nostri interessi e in che modo: ad esempio, lo percepiamo come positivo (un’opportunità, qualcosa di utile per noi), negativo/minaccioso (qualcosa che danneggia il nostro benessere o i nostri obiettivi), oppure irrilevante per la nostra persona. Se lo giudichiamo irrilevante, non proveremo una forte emozione; se invece è valutato come positivo o negativo, ma importante, allora scaturirà un’emozione (diversa a seconda del tipo di valutazione). In seguito, con la valutazione secondaria, consideriamo come affrontare la situazione: valutiamo le risorse a nostra disposizione, le possibilità di controllo o di adattamento (in termini di coping). Questa seconda fase determina in parte l’intensità e la qualità dell’emozione: ad esempio, di fronte a una situazione percepita come minacciosa, se nella valutazione secondaria concludiamo di avere buone strategie o risorse per fronteggiarla, potremmo provare sfida o attivazione gestibile; se invece ci sentiamo impotenti, l’emozione sarà di terrore o disperazione. In base a questo modello, emozioni distinte emergono da differenti “configurazioni” di valutazione cognitiva. Per esempio, la rabbia potrebbe sorgere quando valutiamo un evento come un danno ingiusto (valutazione primaria: dannoso per me, e magari provocato da qualcuno intenzionalmente) ma crediamo di poterci difendere o rimediare (valutazione secondaria: ho la forza per reagire) – da cui l’attacco come risposta; la paura invece nasce quando valutiamo qualcosa come una minaccia fisica o psicologica per la nostra integrità ma percepiamo scarse possibilità di fronteggiarla efficacemente, spingendoci all’evitamento o alla fuga. La felicità/gioia scaturisce da una valutazione primaria di situazione vantaggiosa o di raggiungimento di un obiettivo importante, unita magari alla percezione che tutto sia sotto controllo (secondaria). Queste sono solo illustrazioni semplificate, ma rendono l’idea di come Lazarus vedesse l’emozione: un processo dinamico in cui la mente valuta significati e il corpo risponde di conseguenza (ad esempio, l’attivazione fisiologica e l’espressione comportamentale vengono innescate dopo che il cervello ha “deciso” che c’è motivo di avere un’emozione).
Lazarus, in collaborazione con altri (come i ricercatori Folkman, Coyne, etc.), testò queste idee anche sperimentalmente. Un famoso studio del 1964 (Speisman, Lazarus et al.) mostrò a dei partecipanti un filmato stressante di rituali tribali potenzialmente traumatizzanti, manipolando la colonna sonora narrante: ad alcuni fu data una narrazione che minimizzava la scena descrivendola in modo antropologico/distanziato, ad altri una narrazione enfatizzante il dolore e la traumaticità, altri ancora videro il filmato senza audio. Misurando le reazioni dei soggetti (ad esempio la conduttanza cutanea, indice di stress), Lazarus trovò che le reazioni emotive differivano significativamente a seconda dell’interpretazione fornita dalla narrazione: chi aveva ricevuto una “chiave di lettura” tranquillizzante o razionalizzante mostrava minori segni di stress rispetto a chi l’aveva vissuto con una cornice drammatica. Questo confermò sperimentalmente che cambiando cognizione cambia l’emozione. Storicamente, la teoria di Lazarus si sviluppò negli anni ’60 in concomitanza con l’emergere della psicologia cognitiva, ma divenne particolarmente influente negli anni ’80, quando Lazarus formulò esplicitamente la sua posizione nel dibattito sul primato della cognizione (in un celebre articolo del 1984).
Lazarus sostenne con forza che la valutazione cognitiva è un pre-requisito dell’emozione: in altre parole, senza una qualche forma di valutazione mentale non può esistere una vera emozione, poiché l’emozione è sempre reazione a un significato. Questa posizione lo portò a un confronto diretto con un altro eminente psicologo dell’epoca, Robert Zajonc, che invece enfatizzava la possibilità di reazioni emotive immediate non mediate dalla cognizione. Prima di entrare in quel dibattito, vale la pena sottolineare che il contributo di Lazarus ebbe ampie ripercussioni pratiche: ad esempio, nel campo dello stress e del coping Lazarus sviluppò un quadro per capire come le persone affrontano eventi stressanti (il modello transazionale dello stress, 1984), chiaramente legato alla valutazione cognitiva e alle emozioni conseguenti. Questa prospettiva ha influenzato interventi psicologici concreti: oggi, molte tecniche terapeutiche (come la ristrutturazione cognitiva nella terapia cognitivo-comportamentale) si basano proprio sull’idea di cambiare l’appraisal di una situazione per cambiare l’emozione associata. Ad esempio, imparare a reinterpretare un fallimento non come “sono un incapace, la mia vita è rovinata” ma come “ho commesso un errore da cui posso imparare” riduce emozioni come vergogna e depressione e favorisce reazioni più adattive (un saluto a Carol Dweck). Questo è un chiaro riflesso dell’eredità di Lazarus nell’applicazione attuale.
Zajonc: sentire prima di pensare
Quale fu invece il contributo di Robert Zajonc? Zajonc (il cui cognome polacco si pronuncia approssimativamente “Zàianz”) era uno psicologo sociale sperimentale che si interessò ai processi affettivi di base. Nel 1980 pubblicò un influente articolo intitolato “Feeling and thinking: Preferences need no inferences” (“Sentire e pensare: le preferenze non hanno bisogno di inferenze”), in cui sosteneva una tesi provocatoria: le risposte affettive possono verificarsi in modo immediato e diretto, senza previa elaborazione cognitiva. In termini più semplici, Zajonc affermava che possiamo “provare qualcosa” (piacere, dispiacere, attrazione, repulsione, allarme) verso uno stimolo ancor prima di averlo riconosciuto o analizzato razionalmente. Come abbiamo visto, questa idea era in parziale contrasto con Lazarus e con l’approccio cognitivista dominante, che vedeva la valutazione mentale come sempre necessaria. Zajonc portò diversi argomenti ed evidenze a favore della sua posizione. Un esempio classico è l’“effetto di mera esposizione” (mere exposure effect), fenomeno scoperto dallo stesso Zajonc: se una persona viene esposta ripetutamente a uno stimolo inizialmente neutro (ad esempio una forma geometrica, un volto sconosciuto, una parola priva di significato) – anche senza che vi presti attenzione consapevole – col tempo tende a sviluppare una leggera preferenza per quello stimolo rispetto a stimoli mai visti (un saluto agli amici dell’advertising). In altre parole, la semplice familiarità genera una reazione affettiva positiva in assenza di qualsiasi ragionamento o riconoscimento cosciente dello stimolo (spesso i partecipanti non ricordano nemmeno di aver visto prima quelle figure, eppure mostrano di gradirle di più). Questo suggerisce che un atteggiamento emotivo (sia pur debole) può formarsi senza inferenze cognitive, semplicemente attraverso meccanismi di esposizione e memoria implicita. Un altro argomento di Zajonc riguarda le reazioni emotive istintive: ad esempio, possiamo provare un’immediata sensazione di allarme o di antipatia vedendo per un istante un’immagine minacciosa o un volto ostile, anche prima di aver coscientemente valutato chi fosse quella persona o quale pericolo specifico ci minacci – qualcosa di automatico scatta nell’amigdala e ci fa sentire prima di pensare.
Zajonc riconosceva che nel lungo corso pensieri e valutazioni intervengono, ma voleva evidenziare che esiste un sistema affettivo rapido e automatico che opera indipendentemente dal sistema cognitivo più lento e deliberativo. Questo punto di vista trovava risonanza con l’approccio evoluzionistico: consideriamo la paura di un serpente – per la sopravvivenza è adattivo reagire emotivamente (con paura e magari un salto indietro) prima di aver identificato con certezza se l’oggetto per terra è un serpente o solo un bastone; un processamento cognitivo troppo lungo potrebbe costarci la vita se davvero fosse un serpente velenoso. Dunque l’evoluzione avrebbe favorito scorciatoie emotive rapide.
Nel dibattito che ne seguì, Lazarus rispose a Zajonc (in particolare in un articolo del 1984 dal titolo emblematico “Thoughts on the primacy of cognition”, Pensieri sulla priorità della cognizione) argomentando che, se è vero che le elaborazioni possono essere estremamente rapide e inconsce, si può comunque definire cognizione anche una valutazione automatica sub-personale: in sostanza Lazarus sostenne che qualche forma di valutazione (anche semplicemente “pericolo!” vs “innocuo”) è sempre presente, anche se avviene senza consapevolezza, e che quindi l’emozione non è mai totalmente scollegata da un processo mentale valutativo.
La disputa Lazarus-Zajonc in realtà verteva in parte su come definire “cognitivo” – se includere o meno i processi subconsci. E al di là della semantica, la questione sostanziale era: tutte le emozioni richiedono un pensiero (per quanto rapido), oppure alcune reazioni affettive avvengono indipendentemente dall’interpretazione? La maggior parte dei ricercatori oggi concorderebbe nel dire che esistono risposte emotive immediate e automatiche (soprattutto per stimoli semplici, innati o molto appresi, come rumori forti, volti, odori particolari) ed esistono emozioni che invece dipendono fortemente da attribuzioni cognitive complesse (ad esempio, il risentimento verso un collega richiede di ricordare e interpretare sue azioni passate).
Un supporto provenuto dalle neuroscienze alla posizione “intermedia” è la scoperta di due vie neurali per la paura (ricercata da Joseph LeDoux negli anni ’90): una via “bassa” e veloce che dall’occhio arriva al talamo e direttamente all’amigdala, scatenando reazioni di paura prima che ce ne rendiamo conto, e una via “alta” e lenta che dal talamo porta all’area corticale visiva e poi all’amigdala, permettendo una valutazione più accurata dello stimolo. Questo modello del “doppio circuito” mostra come il cervello integra sia risposte immediate non coscienti (in linea con Zajonc) sia valutazioni più riflessive (in linea con Lazarus) per generare l’esperienza emotiva finale. Storicamente, il confronto tra Lazarus e Zajonc fu estremamente fruttuoso perché costrinse i teorici a chiarire i propri modelli e a progettare esperimenti ingegnosi per dimostrare l’una o l’altra tesi. Ad esempio, furono condotti studi su pazienti con elaborazione corticale compromessa ma reazioni affettive conservate, o su elaborazioni subliminali di stimoli emotigeni. Emersero anche prospettive che cercavano di integrare i due aspetti, riconoscendo che emozione e cognizione sono distinte ma interagenti.
L’eredità di questo dibattito nella psicologia odierna è un modello più ricco: oggi si studiano le emozioni come fenomeni multicomponenziali, in cui c’è un componente di attivazione automatica e uno di valutazione cognitiva che si influenzano a vicenda. In pratica, ciò significa ad esempio che possiamo avere una reazione istintiva di fastidio verso qualcuno senza saperne il motivo (Zajonc), ma riflettendoci poi potremmo attribuirla al fatto che ci ricorda qualcun altro o a pensieri che inizialmente non erano emersi (Lazarus); oppure possiamo iniziare valutando razionalmente una situazione e poi “sentire” l’emozione crescere in base a quell’analisi.
In conclusione, il contributo di Zajonc aggiunse profondità al quadro cognitivo, ricordandoci di non trascurare l’intuizione emotiva immediata, e che l’emozione non è solo figlia del pensiero deliberato ma ha radici profonde e veloci – un messaggio che curiosamente richiama di nuovo Darwin e l’idea di reazioni emotive automatiche come retaggio evolutivo.
Christina Maslach e il peso emotivo dell’interazione umana
Finora abbiamo esaminato teorie che cercano di spiegare come nasce un’emozione nel momento in cui si presenta uno stimolo acuto (un evento, una situazione). Ma le emozioni fanno parte della vita umana anche su scale temporali più lunghe e in contesti sociali specifici. Vale la pena menzionare, come applicazione sociale e attuale, il lavoro di Christina Maslach sul burnout. Maslach, una psicologa sociale, negli anni ’70 studiò le conseguenze di un prolungato stress emotivo sul lavoro, in particolare nelle professioni d’aiuto (infermieri, medici, insegnanti, assistenti sociali). Nel contesto storico degli anni ’70, vi era crescente attenzione al benessere sul lavoro e ai rischi psicosociali: Maslach condusse interviste e ricerche sul campo notando un fenomeno ricorrente di esaurimento emotivo tra questi operatori, che lei battezzò “burnout” (letteralmente “bruciarsi, esaurirsi”). Il contributo di Maslach fu di definire e concettualizzare il burnout non come un semplice stress, ma come sindrome multidimensionale con tre componenti principali:
Esaurimento emotivo: una sensazione di essere emotivamente svuotati, privi di energia e risorse emotive, come se non si avesse più nulla da dare agli altri sul piano affettivo. È il cuore del burnout, il sentirsi “bruciati dentro”.
Depersonalizzazione (o cinismo): un atteggiamento distaccato, apatico o cinico verso le persone di cui ci si dovrebbe prendere cura (ad esempio i pazienti, i clienti, gli studenti). Chi ne soffre tende a vedere gli altri in modo spersonalizzato, come oggetti o numeri, sviluppando una mancanza di empatia o un’irritazione verso di essi, spesso come meccanismo di difesa.
Ridotta realizzazione personale: un calo del senso di efficacia e realizzazione nel proprio lavoro; la persona si sente incompetente, demotivata, e percepisce che i propri successi personali siano pochi o nulli. Ciò alimenta un circolo negativo, minando ulteriormente l’impegno.
Maslach, assieme a Susan Jackson, sviluppò nel 1981 il Maslach Burnout Inventory (MBI), un questionario per misurare questi tre aspetti, dando solidità empirica al costrutto di burnout.
Come si inserisce questo contributo nell’evoluzione delle teorie sulle emozioni? Innanzitutto, storicamente Maslach portò l’attenzione sul fatto che le emozioni non sono solo episodi momentanei, ma possono accumularsi e logorare l’individuo nel lungo termine, specialmente in interazione con le richieste sociali (in questo caso, le richieste professionali ed emotive di certi lavori). Il burnout è un esempio di come fattori cognitivi e valutativi (sentirsi inefficaci, percepire un disallineamento tra sforzo e risultato), fattori emotivi (sovraccarico di empatia negativa, frustrazione) e fattori sociali/organizzativi (ambiente di lavoro stressante, mancanza di supporto) interagiscano nel tempo fino a dar luogo a una sindrome definita.
Possiamo vedere l’influenza delle teorie precedenti anche qui: il modello di Lazarus sullo stress e coping è chiaramente collegato (il burnout deriva da uno stress cronico mal gestito, da continue valutazioni di sopraffazione e mancanza di controllo), e la stessa legge di Yerkes-Dodson trova eco (un livello moderato di attivazione sul lavoro motiva, ma un livello eccessivo protratto porta al crollo). Maslach, nel contesto della psicologia degli anni ’80, contribuì a spostare il discorso delle emozioni sul terreno applicativo e sociale: non si trattava più solo di capire i meccanismi generali “stimolo-organismo-risposta” in laboratorio, ma di riconoscere l’impatto delle emozioni nella vita reale delle persone e nelle organizzazioni. Oggi il concetto di burnout è diffusamente riconosciuto (persino dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come fenomeno occupazionale) e ha condotto a interventi per promuovere il benessere emotivo nei luoghi di lavoro – ad esempio programmi di supporto psicologico per operatori sanitari, tecniche di stress management, bilanciamento carico di lavoro/recupero, etc.
In sintesi, Maslach ci ha mostrato un volto delle emozioni complementare a quello istantaneo e universale studiato da Darwin o Ekman: ovvero le emozioni prolungate e contestualizzate socialmente, e come la società e l’ambiente incidano sul nostro equilibrio emotivo in modo cumulativo. Anche l’esperimento classico di Philip Zimbardo (1971) nella Stanford Prison può essere citato come monito di quanto il contesto sociale e i ruoli possano plasmare le esperienze emotive degli individui: in quel caso, persone psicologicamente sane poste in un ambiente carcerario simulato finirono col provare (e suscitare in altri) emozioni estreme di sopruso, umiliazione, impotenza, aggressività, a dimostrazione di un’influenza ambientale potentissima. Non a caso fu proprio Christina Maslach, allora giovane ricercatrice e compagna di Zimbardo, a riconoscere lo stato emotivo devastante in cui i partecipanti erano caduti e a convincere Zimbardo a interrompere l’esperimento. Questi esempi sottolineano che le teorie psicologiche sulle emozioni, per essere complete, devono tenere conto anche della dimensione sociale e situazionale, oltre che di quella individuale.
Conclusioni
Oggi si riconosce che esistono diversi “tipi” o livelli di emozioni: quelle primarie, rapide e automatiche, e quelle secondarie, più lente e cognitive, e che interagiscono (una reazione istintiva può essere modulata o soppressa dal pensiero, e un pensiero può generare col tempo una forte reazione viscerale). L’emozione è composta da diversi elementi: una componente fisiologica (arousal, reazioni neuroendocrine, pattern corporei), una componente cognitiva (valutazioni, pensieri, ricordi associati), una componente di espressione/comportamento (facciale, vocale, posturale, azioni come fuggire o attaccare), una componente soggettiva (il sentimento consapevole che proviamo) e una componente sociale (l’interazione con il contesto e le altre persone). È ormai chiaro, infatti, anche che nessuna teoria che si concentri solo sull’individuo isolato può essere completa: le emozioni si sviluppano in un contesto sociale, e gli esseri umani sono animali sociali. Un aspetto comune che affiora è l’idea che le emozioni abbiano anche una funzione comunicativa e regolativa nelle relazioni.
La psicologia contemporanea tende alla sintesi: ad esempio, modelli recenti come la teoria multicomponenziale di Scherer considerano l’emozione come il risultato di più appraisals successivi con attivazione dei vari sistemi (corporeo, espressivo, mentale) in sincronia; oppure la teoria degli indicatori somatici di Damasio rilegge in chiave neurobiologica l’intuizione di James-Lange integrandola con la cognizione; le teorie sull’intelligenza emotiva sottolineano la consapevolezza e regolazione cognitiva delle proprie emozioni in linea con Lazarus, e così via.
Rileggere le tappe con cui la psicologia ha cercato di definire e spiegare le emozioni è, per me, anche un modo per riconoscere la nostra umanità nella sua interezza.
Siamo corpo, sì, ma anche mente che interpreta, cuore che si espone, relazioni che ci trasformano. E nessuna teoria, da sola, può contenere la complessità di quello che proviamo. Lo yoga mi ha insegnato che non sempre serve spiegare tutto. A volte è sufficiente ascoltare, respirare, restare. Eppure, ha un enorme valore anche la conoscenza scientifica, che può rendere più profondo l’ascolto.
E allora forse l’integrazione tra scienza e pratica, tra pensiero e presenza, (tra Oriente e Occidente?) non è solo possibile: è desiderabile. È lì, in quello spazio di attraversamento, che la mia sensibilità – troppa, mai abbastanza – trova finalmente un suo posto. Seduta, in una posizione comoda, con l’attenzione al respiro.
Daria, complimenti davvero! Semplice, completo e super interessante per un non addetto ai lavori. Non voglio sapere quanto ci hai messo a prepararlo :) Bello vedere la passione e la capacità messe insieme, su un tema così importante. Brava brava.
Letto tutto, grazie per l’interessante panoramica! E consiglio a proposito di Maslach il film “Das Experiment” (anche il remake americano). Mi sono sempre interessate le dinamiche sociali ☺️ ma di emozioni so poco e niente, tranne la mia esperienza burrascosa.