L’infinito in terra
Outback è un termine australiano che indica le vaste regioni remote e scarsamente popolate dell'entroterra del continente. Non ha una definizione geografica rigida, ma si riferisce generalmente alle aree desertiche e semi-aride lontane dalle città e dalla costa. L’Outback rompe un po’ i confini di quello che siamo abituati a chiamare “un luogo”. È un’idea di spazio che sfida la percezione, dove la strada si dissolve nell’orizzonte e il tempo assume un ritmo diverso. Lì, l’asfalto lascia il posto alla polvere rossa, i cartelli stradali avvertono di cammelli e canguri, e i tramonti incendiano il cielo come se ogni sera fosse l’ultima.
Viaggiare nell’Outback è un on the road nella sua essenza più pura: pochi punti di riferimento, tanta strada e la sensazione di essere piccoli in un mondo immenso. Le cittadine sono distanti centinaia di chilometri, il telefono spesso non prende, e la benzina diventa un bene più prezioso dell’acqua. Ma proprio in questa vastità arida e magnetica si trova un senso di libertà assoluta, la possibilità di perdersi per ritrovarsi.
La cultura dell’Outback è fatta di incontri casuali nei roadhouse, di storie raccontate attorno a un fuoco, di sguardi complici tra viaggiatori che condividono lo stesso feeling. È il cuore più autentico dell’Australia, dove la terra parla attraverso i miti aborigeni e le stelle si fanno così vicine da sembrare finte.
Non è un viaggio per tutti, ma è un viaggio che resta dentro. È il viaggio che ha scelto di fare Veronica.
Ti presento Veronica
Ho avuto la fortuna di conoscere Veronica per lavoro durante la mia vita milanese e mi è entrata subito nel cuore perché è la classica persona che porta il Sole: aggiunge sempre un po’ di sale a ogni situazione e anche nei momenti più bui riesce sempre a strapparti un sorriso. Lo scrivo consapevole che può diventare un fardello: non è una responsabilità da poco quando gli altri si aspettano da te che tu sia sempre l’anima delle festa. Ma come con tutti i fardelli, Veronica lo porta con leggerezza: prende la vita di petto e trascina nelle sue avventure le persone che attrae naturalmente a sé. Lontana dagli intellettualismi in cui spesso mi incarto io, mi ha spesso prestato il suo rasoio di Occam per tornare alla realtà e apprezzarla per quello che è, quando io partivo per i miei voli pindarici.
Con il senno di poi ce lo si poteva aspettare, ma sono rimasta sotto shock quando una sera a cena mi ha comunicato che aveva dato le dimissioni e sarebbe partita per l’Australia. È stato per entrambe uno di quei click da cui non si torna più indietro. Ma non è finita qui. Da Melbourne, dove vive ora, ha intrapreso un viaggio eccezionale con il suo compagno, Gaetan, nell’Outback australiano. Le ho fatto quindi qualche domanda.
Una chiacchierata a 16.000 km di distanza
D: Perché hai lasciato l’Italia? La risposta che dai oggi è diversa da quella che avresti dato al momento della tua partenza?
V: Non credo che la mia risposta sia cambiata rispetto a quando sono partita. All’epoca, come oggi, la decisione è nata da una serie di motivazioni molto personali e pratiche. Non ho mai provato astio verso l’Italia. Amo la cultura italiana, il cibo e tutto ciò che rappresenta, ma ho lasciato Milano, più che l’Italia. Milano, pur essendo stata un punto di svolta nella mia vita a vent’anni, con il tempo è diventata per me un luogo tossico.
La linea di non ritorno è stato il COVID. Durante il lockdown ho sofferto molto il fatto di essere chiusa in casa, specialmente in un appartamento seminterrato, e ho capito quanto bisogno avessi di luce e natura. Questa consapevolezza, unita alla difficoltà di vedere Milano come un luogo dove poter costruire un futuro — specialmente dopo aver tentato invano di comprare casa — mi ha fatto mettere tutto in discussione.
Un altro fattore decisivo è stato la fine di una relazione importante. È stata una separazione dolorosa, che mi ha fatto sentire persa e incapace di immaginare un futuro in quella città. Sentivo di essere "bloccata" a Milano, intrappolata in una ripetizione di ciò che avevo già vissuto nei dieci anni precedenti. La fine della relazione è stata il trigger: un momento di crisi che mi ha spinta a cercare un reset, un cambiamento radicale.
Ho scelto l’Australia, anche grazie al consiglio di mio fratello, che vive lì. Mi ha suggerito di affrontare questa sensazione di smarrimento facendo qualcosa di drastico: partire, immergermi in una nuova vita e impegnarmi a costruire qualcosa di diverso. Non posso dire che i problemi siano spariti, ma trovarmi in un contesto completamente nuovo mi ha permesso di rimettermi in gioco e, in un certo senso, di sopravvivere.
Quindi, se devo riassumere, la risposta che darei oggi è sostanzialmente la stessa di allora: avevo bisogno di cambiare aria, di conoscere me stessa, di lasciarmi alle spalle una città che non sentivo più mia e di mettermi alla prova in un contesto nuovo. E, perché no, migliorare il mio inglese, è stato un ulteriore bonus.








D: Qual è stata la tua esperienza con l'Australia e con la vita a Melbourne? Com'è cambiata la tua percezione nel tempo?
V: La mia idea dell'Australia e di Melbourne si è evoluta molto negli anni. La prima volta che sono venuta qui, dieci anni fa, non mi aveva lasciato una grande impressione: mi sembrava un posto senza storia, senza una vera cultura, e il cibo era terribile. Camminavo per strada e non sentivo quell’anima che invece in Europa è ovunque. Se allora mi avessero detto che un giorno sarei venuta a vivere qui, avrei riso.
Ma la vita è imprevedibile. Quando sono arrivata a Melbourne per trasferirmi, con la consapevolezza che ci avrei passato almeno un anno, ho avuto un approccio completamente diverso. La città nel frattempo era cambiata, si era evoluta, ma soprattutto ero cambiata io. Mi sono trovata in un ambiente dinamico, internazionale, con un’atmosfera vibrante. Il primo impatto è stato positivo: Melbourne è enorme, multiculturale e con un ritmo di vita decisamente più rilassato rispetto alle grandi città europee. Un dettaglio che mi ha colpito è stato il modo in cui le persone camminano: nessuno corre freneticamente come a Milano o Londra. È il riflesso di un diverso equilibrio tra vita e lavoro
Certo, inizialmente c’è stata una fase di confronto: in Australia non c’è una cultura profondamente radicata come in Europa, molte tradizioni sono importate e, inevitabilmente, perdono autenticità. Anche il classico “Hey, how’s it going?” che ti dicono tutti per strada mi sembrava un’abitudine superficiale, perché in realtà nessuno aspetta davvero una risposta. Ma col tempo ho imparato ad apprezzare questa spontaneità e l’apertura delle persone.
Nel complesso, il mio giudizio è cambiato in meglio. Ho imparato ad adattarmi, a lasciar andare il confronto con l’Italia e a vivere l’esperienza per quello che è. Melbourne è una delle città in cui si vive meglio al mondo, ed è facile capire perché.
D: Com'è nata l’idea di esplorare l’Australia in macchina?
V: Dopo un anno e mezzo a Melbourne, mi sono resa conto che, pur essendo dall’altra parte del mondo, avevo ricreato una vita molto simile a quella che avevo a Milano: stesso settore lavorativo, stessi ritmi, una routine ben definita. Questo mi ha fatto riflettere. Avevo attraversato mezzo pianeta per scoprire qualcosa di nuovo, eppure mi sentivo ancora “bloccata” in un sistema di vita simile.
L’idea del viaggio è nata dal desiderio di fare un’esperienza completamente diversa. Mio fratello aveva fatto un viaggio simile anni prima e ne avevamo parlato spesso. Ho sempre sentito un forte bisogno di natura, e l’Australia, con i suoi spazi infiniti, mi offriva l’opportunità perfetta. Così, insieme al mio compagno, abbiamo deciso di lasciare tutto e partire. Abbiamo personalizzato un 4x4 con una tenda sul tetto e l’essenziale per vivere on the road, senza troppe comodità, e siamo partiti per un viaggio di sei mesi.
La scelta dell’itinerario è stata dettata dal tempo a disposizione e dalla voglia di esplorare le zone più remote, come il Western Australia e il Northern Territory. In totale abbiamo percorso 22.000 km, attraversando paesaggi incredibili, dormendo sotto le stelle, vivendo con il minimo indispensabile.
Questo viaggio è stato una rottura totale con la routine, un esperimento per capire cosa resta di te quando togli tutto: il lavoro, la casa, le comodità, le abitudini quotidiane. E quello che resta è incredibilmente autentico.
D: Che cosa è rimasto di te e che cosa hai lasciato andare?
V: Per me è stata una riconnessione profonda con ciò che siamo davvero. Viviamo in una società che ci bombarda di stimoli, che ci tiene costantemente davanti a uno schermo, che ci spinge a essere produttivi senza sosta. Questo viaggio è stato un lusso: il lusso di disconnettersi e riscoprire un ritmo più umano.
Non avevamo acqua calda, né specchi, né connessione costante a internet. Ho vissuto con pochissimi vestiti, ho camminato scalza per mesi, ho seguito il sole per regolare le mie giornate. E la cosa incredibile è che, senza tutto il superfluo, mi sentivo più ricca, più presente.
Ricordo con affetto le mattine in cui mi svegliavo con l’oceano davanti, accendevo il fuoco con la legna della sera prima, preparavo il caffè nella moka e lo bevevo guardando le balene al largo. Erano momenti di pura pienezza, di semplicità assoluta.
Ho imparato il valore della calma, dell’ascolto del corpo e della natura. Ho capito che la vera libertà non è avere di più, ma aver bisogno di meno.
D: Come ha influenzato il tuo rapporto con la solitudine?
V: Questo viaggio mi ha fatto fare pace con la solitudine. Sono sempre stata una persona molto sociale, circondata da amici e famiglia, e non avevo mai davvero sperimentato cosa significasse stare sola con me stessa.
All’inizio non sapevo nemmeno cosa aspettarmi. Ma ho scoperto che la solitudine non è un vuoto da riempire, ma uno spazio da abitare. È un’occasione per conoscersi davvero, senza distrazioni. Ho imparato a stare bene con me stessa, ad ascoltarmi, a non avere paura del silenzio.
È stata una rivelazione. Ora so che non devo riempire ogni momento con qualcosa o qualcuno. E questa è una libertà immensa.









D: Qual è stata la parte più difficile di questo viaggio?
V: Onestamente, non ci sono stati momenti in cui ho desiderato tornare indietro. Certo, la vita on the road non è sempre semplice: ci sono state giornate di guida infinita, imprevisti, qualche litigio inevitabile con il mio compagno (stare 24/7 con qualcuno per mesi mette alla prova qualsiasi relazione). Ma ogni difficoltà è stata una lezione.
All'inizio, litigavamo spesso per piccole cose, ma poi abbiamo imparato a comunicare meglio, a rispettare gli spazi dell’altro. Il viaggio è stato una grande prova per la nostra coppia, e ne siamo usciti più forti.
D: In che modo pensi che questa esperienza influenzerà il tuo futuro?
V: Questo viaggio mi ha cambiata profondamente. Ho capito che il contatto con la natura è essenziale per il mio benessere, che non voglio una vita chiusa tra quattro mura, che ho bisogno di movimento e di scoperta.
Non credo che tornerò mai a vivere in una grande città come Milano. Il futuro per me sarà più legato alla natura, all’essenziale, a una vita più libera.
C’è una frase che ho letto di recente che riassume perfettamente ciò che ho imparato: "La felicità non sta nella meta, ma nel movimento. Non è un luogo a salvarci, ma il viaggio stesso. È l'andare, il muoversi, il perdersi. La felicità è nel cammino, non nell’arrivo."
E credo che questa sarà sempre la mia filosofia di vita.
Tutte le foto sono di ©Veronica Bellotto. Trovi queste e molte altre su The Outbat.