Il vecchio grinzoso con un sorriso sdentato esce dalla capanna di argilla con un pezzo di carta colorata in mano. Ci ha portati da lui suo figlio, che di mestiere fa la guida turistica e la comparsa in blockbuster americani: “Il blu rappresenta i mari, il Mediterraneo e l'Oceano Atlantico; il verde rappresenta il Bled, la terra fertile e montuosa; il giallo rappresenta la sabbia del deserto del Sahara. Il Nord Africa è il territorio degli amazigh”. Dopo la bandiera, ci mostra il frame in cui compare in una puntata di Game of Thrones, ma c’è rimasto un po’ male quando ha visto quante modifiche hanno fatto con il computer alla scena originale. Di Gerard Depardieu parla malissimo, Denzel Washington invece ha saputo farsi amare. Ma presto ritorna alla sua bandiera: il simbolo al centro è lo yaz o aza. “Non lo riconosci?", Mohamed mi fissa con i suoi occhi da attore mentre con il dito ricalca il simbolo ⵣ. È un uomo libero”.
“Noi” siamo abituati a chiamarli “popolo berbero”, ma gli amazigh sono stanchi di sentirsi appellare da chi li ha colonizzati e rivendicano con orgoglio la loro antica cultura.
La presenza storica degli amazigh in Nord Africa risale a migliaia di anni fa, ben prima delle conquiste arabe. La parola Amazigh significa effettivamente "uomo libero", o "nobile". Si tratta di un insieme di gruppi etnici e linguistici con diverse comunità sparse principalmente in Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Mali, Niger ed Egitto. La loro lingua comprende vari dialetti, ma oggi è riconosciuta come lingua ufficiale in Marocco e Algeria, con crescente valorizzazione culturale ed educativa. “Non pensare che le cose vadano bene in Marocco - continua Mohamed - ma vanno meglio. Una volta non potevi neanche dire Amazigh. Ma adesso il governo è più dalla nostra parte.”
Nel 2011, a seguito delle proteste della Primavera Araba, il re Mohammed VI ha promosso una serie di riforme costituzionali, tra cui il riconoscimento dell’amazigh come lingua ufficiale accanto all'arabo. Questa modifica ha segnato un cambiamento significativo nella politica del paese riguardo al rapporto con i popoli indigeni, e nel 2021 il primo ministro Aziz Akhannouch ha riaffermato l’impegno del governo nell’integrazione dell’identità amazigh nella società marocchina.
Gli amazigh hanno una cultura ricca e variegata, con tradizioni orali, artigianato, musica, danza, e un forte legame con la terra. Sono tradizionalmente pastori, agricoltori e artigiani, con forti legami familiari e comunitari. Molti mantengono costumi e pratiche culturali antiche, nonostante le pressioni di assimilazione e modernizzazione. Storicamente avevano religioni proprie, animiste o politeiste. Oggi la maggioranza è musulmana, spesso di tradizione sunnita, ma con influenze locali. Alcuni gruppi, come i Tuareg, conservano elementi di credenze tradizionali. Gli amazigh hanno subito marginalizzazione e repressione culturale nei secoli, soprattutto dopo la conquista araba e la colonizzazione europea. Negli ultimi decenni, hanno iniziato a organizzarsi politicamente per rivendicare diritti linguistici, culturali e politici. La bandiera amazigh e il simbolo ⵣ sono diventati emblemi di questa lotta per il riconoscimento.
Io e Fabio abbiamo cercato di percorrere l’itinerario indicato dalla bandiera, dal Bled, al Sahara, fino all’oceano Atlantico.
L’Alto Atlante è la catena montuosa che separa Marrakech dal sud desertico. Abitata da popolazioni amazigh, l’Atlante è stato per secoli una barriera naturale, culturale e climatica. Il Tizi N’Tichka è un passo di montagna sull’Alto Atlante, a 2.260 metri di altitudine, il più alto del Marocco percorribile in auto. Costruito dai francesi negli anni ’30 per collegare Marrakech al sud, era (ed è) una via commerciale strategica. Il paesaggio dalla strada è spettacolare: montagne scolpite dal vento, villaggi aggrappati alle rocce, panorami mozzafiato.



Aït ben haddou è un antico ksar, un villaggio fortificato costruito con terra cruda, dichiarato Patrimonio UNESCO. È anche una delle location cinematografiche più celebri al mondo. La sua architettura in terra battuta e la posizione scenografica lungo le rotte carovaniere tra il Sahara e Marrakech lo hanno reso un set ideale per numerosi film e serie TV, sia hollywoodiani che internazionali, da Il gladiatore a Babel, passando per Game of Thrones appunto. Risale almeno al XVII secolo, e ha sempre ospitato mercanti e pellegrini che scambiavano cammelli per il deserto con gli asini per le montagne. Il sale era l’oro. Oggi ci vivono otto clan.
Dopo il terremoto del 2023 - un terremoto di magnitudo 6,8 che ha causato oltre 2.900 vittime e ingenti danni, soprattutto nelle aree montuose e rurali - il governo sta cercando di intervenire sulla vulnerabilità degli edifici, anche con l’aiuto della comunità internazionale. “Ma le case di fango restano fresche anche quando a luglio fanno 40 °C. Quelle di cemento diventano forni”, commenta ancora Mohamed.



Boumalne Dades invece è un villaggio di montagna nella Valle del Dades, punto d’accesso alle Gole del Dades, scolpite dai fiumi e dalle erosioni. Le famose “dita di scimmia” sono formazioni rocciose tipiche. Possibile fare dei piccoli trekking nei dintorni, impossibile passare la notte qui senza provare i costumi e le danze tradizionali delle famiglie che ti ospitano. Le Gole di Todra sono invece un impressionante canyon naturale scavato dal fiume Todra, con pareti alte fino a 150 metri. Da un antico passaggio, oggi è una meta amata anche dagli arrampicatori.



Drâatafilalet è una regione desertica e agricola che collega l’Atlante al Sahara, piena di palmeti e villaggi tradizionali, snodo fondamentale per le carovane dirette a Timbuctù. Ancora oggi ospita tribù nomadi e famiglie che vivono di datteri, argilla e pastorizia. È il paesaggio che ti accompagna nel tragitto verso il deserto, quello vero. È un viaggio nel tempo, nella geografia del Marocco autentico. Proveranno a venderti un tappeto, puoi scommetterci, ma sarà difficile stabilire se è più per il tappeto o per il gusto di trattare.






Erg Chebbi è uno dei due grandi deserti di dune sabbiose del Marocco (l’altro è Erg Chigaga). Qui ci sono le dune più alte, oltre 100 metri di altezza. Parte del deserto del Sahara fu abitato fin dall’antichità da nomadi, dai Tuareg in particolare. Oggi ospita numerosi campi tendati turistici che offrono giri in cammello al tramonto, serate intorno al fuoco e pernottamente nel deserto. È uno dei paesaggi più emozionanti dell’itinerario.




Il viaggio ha iniziato a cambiare ritmo quando siamo arrivati a Tamraght, piccolo villaggio sulla costa atlantica. Le onde che si infrangono sugli scogli sembrano invitarti a un rito di passaggio: il surf, più che uno sport, diventa un dialogo profondo con la natura e con te stesso. Per me funziona come un reset energetico. È qui che abbiamo incontrato Othmane Zolati, che ci ha ospitato nella sua surf house.
Othi è un ragazzo marocchino che nel 2015, all'età di 20 anni, ha lasciato la sua città natale di El Jadida con soli 80 dollari, uno zaino e una fotocamera, ed è partito per un'avventura che lo ha portato a percorrere oltre 30.000 km attraverso 24 paesi africani, utilizzando mezzi di trasporto alternativi, prevalentemente la bici. Othi ha utilizzato il suo viaggio per sfidare gli stereotipi sull'Africa, mostrando la bellezza, la diversità e la generosità del continente. Ha incontrato persone di diverse culture, come i Maasai, gli Himba e gli Hamer, e ha documentato iniziative locali di educazione, arte e attivismo. Il suo obiettivo era raccontare un'Africa diversa da quella spesso presentata nei media occidentali e dal suo materiale è nato il documentario Africa and I, che nel maggio 2022 ha vinto il premio come Miglior Primo Lungometraggio Documentario al Pan African Film and Arts Festival (PAFF) di Los Angeles, uno dei festival più prestigiosi dedicati al cinema africano e alla cultura afroamericana.
In una comunità rurale del Ghana, ha scoperto uno studio di registrazione improvvisato, dove un rapper locale, Pop Spanner, produce musica di alta qualità con attrezzature di base. A Ganvie, una città lacustre in Benin, Zolati ha partecipato alla celebrazione dell'Eid al-Adha con la comunità locale. Nonostante le differenze culturali, è stato accolto calorosamente, mostrando come l'ospitalità e la solidarietà siano valori profondamente radicati in molte comunità africane. In Etiopia, è stato invitato a partecipare a un tour in skate, organizzato da giovani del posto, a riprova di come lo sport giochi un ruolo fondamentale come veicolo di aggregazione e attivismo.
Questo viaggio mi ha insegnato a guardare alle culture africane attraverso storie di libertà raccontate dai loro protagonisti. È chiaramente solo una delle tante lenti possibili, lungi da me voler appiattire i chiaroscuro, ma con la mia personalissima testimonianza non posso fare altro che provare a restituire quanto mi sento onorata di aver incontrato chi vive queste terre e custodisce queste storie, lasciando andare, almeno per un po’, idee preconfezionate e sfaccettature più controverse. Se ti va, ti consiglio di guardare il documentario di Othi (è su Prime Video ma con VPN dal Marocco 👀).
A fine Aprile ho fatto il tuo stesso giro, passando dalle montagne dell’Atlante all’Atlantico, passando per il deserto (io ero dalle parti di Erg Chigaga) e qualche altra località nel mezzo: non mi aspettavo alcuni paesaggi, non mi aspettavo soprattutto che questo viaggio mi ha lasciasse piena di emozioni, che non so nemmeno descrivere, a dire il vero.
Bello, mi sarebbe piaciuto vedere nel post anche un po’ di foto dei luoghi che racconti