Appropriazione Culturale, Ethnic Drag e Yoga in India
Il "vero yoga" non ha un indirizzo geografico, e va bene così
Circa 300 milioni di persone praticano yoga nel mondo. Solo negli Stati Uniti, sono circa 36 milioni, una cifra che è raddoppiata negli ultimi 10 anni.
Nel 2022, l'industria globale dello yoga ha raggiunto un fatturato di circa 106 miliardi di dollari, cifra che potrebbe arrivare a 180 miliardi di dollari entro il 2027, dato un tasso di crescita annuale stimato al 9%.
Negli Stati Uniti, la spesa media per praticare yoga è di circa 90 dollari al mese, con una spesa totale nell’arco della vita di un individuo che può superare i 62mila dollari.
Il mercato di ritiri, viaggi e workshop legati allo yoga dovrebbe raggiungere i 915 miliardi nel 2024.1
Di recente, Yoga Alliance ha pubblicato un report abbastanza esaustivo sulla crescita dello yoga nel mondo, da cui emerge un quadro interessante dal punto di vista della distribuzione geografica e socio-demografica di una pratica molto antica con una storia complessa, e solleva questioni etiche e multiculturali che mi stanno molto a cuore. Provo a raccontare perché.
Fin da quando ero piccola ho sempre amato farmi le treccine, indossare costumi e maschere, in particolare per Halloween, e tutto ciò che riguarda la cultura degli hippy – i quali, a loro volta, amavano travestirsi da “indiani” (ossia da creature di fantasia inventate dai colonialisti) e praticare yoga.
Lo yoga, la cui origine risale fino all’India del VI, V e IV secolo a.C., è tutt’oggi una delle pratiche fisiche e filosofiche che più mi appassiona e mi interroga, perché per me è stato ed è un metodo di auto-osservazione e ascolto, non solo dei flussi di pensiero che ci dominano quotidianamente, ma anche del corpo e delle emozioni che in esso risiedono.
Negli ultimi dodici anni ho approfondito lo yoga tramite diversi maestri, stili, libri, viaggi, eppure solo di recente ho aggiunto alla lista dei problemi che mi pongo il fatto che è arrivato fino a me in Europa, in Italia, a Milano, nel Duemila, tramite un mix di adattamenti, commenti e interpretazioni principalmente occidentali.
Non credo che serva molto altro per capire il mio profondo disagio quando si parla di appropriazione culturale, soprattutto da quando è un tema caldo del dibattito pubblico contemporaneo, o almeno di un certo dibattito pubblico (ognuno ha la bolla che si crea). Questo video di Colory2 riassume una delle tante denunce contro lo “yoga appropriato”, e sembra sostenere che “il vero yoga” sia quello che si pratica in India.
Disagio perché le mie innocue passioni infantili si rivelano, con gli strumenti di oggi, molto poco innocue: sono anche io membro di una cultura colonialista e per questo dominante che sfrutta i prodotti delle culture emarginate come ornamenti estetici? Forse sì, detto che ritengo gli “ornamenti estetici” parte integrante di un processo di ricerca dell’identità molto importante. Faccio anche io parte di quel gruppo di persone che, sfruttando esteticamente i rapporti di potere esistenti, li commercializza e li cristallizza politicamente? Spererei proprio di no.
Eppure sono domande che sento di dovermi fare, soprattutto di fronte ad alcune scelte per me molto importanti, che derivano da urgenze personali forti, il cui carattere etico oscilla pericolosamente. Se vado in India per approfondire lo studio dello yoga, la mia posizione migliora o peggiora?
Studiare una cultura nella sua terra di origine mi sembra una buona idea, anche se chi ha vissuto tanto in India, da italiano, non esita a sottolineare che anche tra gli indiani, come in tutte le culture, ci sono persone serie e venditori di fumo. Studiare yoga in India non è di per sé garanzia di una formazione migliore almeno nel senso di più autentica rispetto a studiare in Italia o in qualsiasi altra parte del mondo — sulla ricerca dell’autenticità torno a breve. Ma viaggiare è sempre un antidoto contro gli eccessi di stereotipizzazione: sia quelli razzisti, sia quelli… anti-razzisti.
Mi farei bastare questo buon senso da viaggiatore, se non fossimo letteralmente circondati di narrazioni occidentali in cui l’India viene descritta come il luogo in cui chi proviene dal Nord America o dall’Europa può “ritrovarsi”, “arrendersi”, vivere “un’esperienza trasformativa”, magari sforzandosi un attimo di superare la puzza e il rumore.
Non sono però meno ingenue, secondo me, le argomentazioni di chi sostiene che “Lo yoga in Occidente non è il vero yoga”: questo tipo di approccio o sbaglia premesse o sbaglia bersaglio.
Sbaglia premesse perché non mi sembra che la provenienza geografica sia il fattore principale nel definire l’autorevolezza delle fonti, oppure sbaglia bersaglio perché il tema non è la contaminazione culturale, ma l’eccesso di commercializzazione e la carenza di cultura portato dallo sfruttamento capitalistico dello yoga, che non riguarda affatto tutte quelle persone che si avvicinano allo yoga, lo studiano, magari lo insegnano, e di questo addirittura ci vivono - pur non essendo indiani o induisti.
C’è anche un altro punto importante: per quanto affascinante sia l’idea di “riscoprire il vero yoga” e onorarne le radici, credo ci siano dei dati che bisogna sempre tenere presente per non cadere in una sorta di orientalismo, inteso come atteggiamento occidentale generalmente condiscendente nei confronti dell’India, come se quella indiana fosse una società cristallizzata in un ideale del passato, statica e non sviluppata.
Nonostante le sue radici antiche e la promozione da parte del governo indiano, solo un terzo circa degli adulti indiani (35%) pratica lo yoga. Di questi, solo il 22% lo fa mensilmente o meno e una percentuale ancora minore lo pratica quotidianamente (7%) o settimanalmente (6%)3.
L'integrazione dello yoga nella vita quotidiana in India è un argomento complesso e variegato, influenzato da diversi fattori culturali e sociali, tra cui il sistema delle caste. Per esempio, i Brahmini, studiosi e sacerdoti, hanno avuto storicamente un accesso privilegiato al sapere yogico, mentre le altre caste, soprattutto i Shudra e i Dalit, in passato erano discriminate ed escluse. Quindi parlare di accessibilità dello yoga citando l’antico sapere indiano non mi sembra particolarmente brillante come approccio, ma mi riservo di continuare a studiare.
Più interessante, credo, la posizione di Rumya S. Putcha, PhD, esperta di studi di genere e post-coloniali, che denuncia il privilegio istituzionale e dato per scontato che permette a un cittadino statunitense di ottenere facilmente un visto turistico per l’India, quando l’inverso è quasi impossibile per il cittadino medio indiano. Quello che suggerisce Putcha per scongiurare l’appropriazione culturale è, come minimo, disinnescare l’etica delle (belle) intenzioni e ragionare di più sull’impatto delle nostre azioni. Ma l’etica dell’impatto fino a che punto è coerente con la filosofia dello yoga?
Onesta: ogni volta che leggo un flame sull’appropriazione culturale penso al carattere decentrato e rizomatico4 di ogni cultura, o insomma a tutte quelle filosofie che celebrano la rete sotterranea di radici per cui ogni cosa è legata con ogni altra — filosofie che mai considererei discriminatorie e coloniali, come sono considerati invece molti “colpevoli” di appropriazione culturale.
Ebbene sì, io sto con chi che pensa che la cultura è appropriazione, e non è una proprietà, che forse ogni proprietà è un furto e che ogni appropriazione è emancipazione: non esistono tradizioni culturali autonome e identiche a se stesse, tanto più in un mondo globalizzato, e il proibizionismo non mi convince mai, nemmeno quando si parla del kimono di Katy Perry.
Lo yin yoga nasce nel XX secolo come uno dei diversi filoni occidentali di sviluppo dell yoga classico. Si tratta di una fusione del pensiero indiano e della filosofia taoista, con elementi di medicina cinese. Il fondatore dello yoga yin è l’americano Paul Grilley, allievo del maestro di arti marziali Paulie Zink e di Hiroshi Motoyama, che gli insegnò la teoria dei meridiani e le loro interconnessioni con le asana. Quindi?
Come dovrebbe essere, esattamente, una cultura priva di appropriazioni? È sufficiente honor the roots o bisognerebbe stare molto attenti ai distillati di purezza culturale? Che cosa stiamo combattendo quando protestiamo contro l’appropriazione culturale? Che cosa vogliamo quando ci scagliamo contro le treccine di Christina Aguilera o la versione Kung Fu di Kendrick Lamar?
Be’, di sicuro vogliamo resistere a quella che viene percepita come una cultura egemonica, che il più delle volte è una cultura onnivora, spuria, che può fagocitare di tutto riducendolo al profitto a ogni costo5.
E non ha questa volontà di contrasto all’egemonia culturale una profonda radice in comune con il bisogno di uscire dalla propria identità predeterminata e di liberarsi del proprio contesto di appartenenza, lo stesso che ci spinge a scegliere indumenti, ornamenti, acconciature “che non ci appartengono”? Trovare e mettere in scena un’identità trasversale alle aspettative della maggioranza della società e alle convenzioni da essa stabilite non è forse addirittura l’essenza della cultura… Queer?
Judith Butler in “Gender is Burning” considera il drag una forma particolare, emancipatrice e autoriflessiva di appropriazione, perché a chi pratica l’appropriazione apre possibilità di espressione di sé altrimenti negate dalla società eteronormativa.
Su questa scia Katrin Sieg ha parlato, di “Ethnic Drag” nel saggio omonimo, sostenendo che il travestimento e il mascheramento etnico nascono da un’urgenza personale di appropriazione con scopo di ricerca identitaria e hanno una funzione di trasfert: ci mettiamo nei panni di un popolo che crediamo ancora immune da tutte le tendenze alienanti della nostra cultura — perlopiù sbagliando.
Cercare salvezza dal capitalismo nella filosofia indiana o lottare contro l’alienazione indossando la kefiah di Arafat sono forme di controcultura o di appropriazione culturale?
L’appropriazione culturale di per sé non dice nulla dell’eticità delle nostre scelte: l’appropriarsi può avere carattere sia reazionario che progressista, dipende da come lo si fa. È una forza creativa, di emancipazione, ma al tempo stesso invischiata in relazioni di violenza e sfruttamento, perché la storia la scrivono i vincitori — gli Elvis Presley, gli Eric Clapton, gli Eminem. Ma chi la ri-scrive, se “non c’è un fuori dal potere”?6
In “Etica dell’Appropriazione”, Jens Balzer disegna i contorni di una appropriazione etica, ossia quella che tiene conto dei rapporti di potere in cui viviamo e li mette in discussione, e che al contempo consiste in una riflessione sulle condizioni in cui ci rapportiamo con noi stessi.
Secondo Balzer, nella forma etica di appropriazione c’è sempre anche una critica del concetto di autenticità, che segue un movimento dialettico. La “buona” appropriazione risulta così essere, insieme:
Segno concettuale che non c’è nulla di autentico — né la propria cultura, né quella altrui; per esempio quando si riconosce che anche la propria cultura appare come qualcosa di cui ci si deve continuamente riappropriare, perché è già diventata estranea ai suoi stessi appartenenti; oppure quando si riconosce che “l’autenticità” di certe etnie, la loro tanto ammirata maggiore connessione alla natura per esempio, non è altro che la proiezione della nostalgia dell’origine di certe altre etnie;
Segno che manifesta un forte desiderio di autenticità, di fronte a un’assenza che è anche perenne, presente ricerca;
Nel migliore dei casi, anche prassi creativa di contro-appropriazione. Balzer, grande esperto di musica e cultura pop, cita il genere Native Tongues come esempio di contro-appropriazione del jazz nei campionamenti hip hop.
Dentro questo movimento dialettico, forse, honor the roots è abbastanza, a patto che le radici siano sempre plurali e i rapporti di solidarietà prevalgano (sic!) su quelli di potere...
Dopo tutto questo posso dirvi che ora sto insegnando yoga in Sri Lanka e sono molto felice :)
Se siete appassionati di yoga - o anche solo di “storie” - guardate questa intervista che ho fatto alla mia insegnante di yoga (francese) a Goa: VIDEO
A presto!
Daria
ColorY* nasce nel 2020 da un’idea di Tia Taylor che, dopo l’omicidio di George Floyd, si è resa conto che in Italia non esisteva uno spazio inclusivo in cui si spiegasse cosa significa e cosa si prova ad essere una persona razzializzata in Italia.
In questo post su Instagram ho raccolto diversi dati citando le fonti: @kundalini_beat
Derrida, Deleuze, Guattari - all.
Quindi di certo è lecito chiedersi “chi ci guadagna?” - Lo stesso discorso sul tema meditazione è stato approfondito da “The Juggernout, smart journalism for the South Asian diaspora” - una media company, guarda un po’, finanziata dai più importanti fondi americani (Y Combinator, Precursor Ventures, Backstage Capital, New Media Ventures, Old Town Medi): How the West Stole Meditation - A South Asian tradition rooted in spirituality is now a multibillion-dollar industry about productivity
Foucault, “La volontà di sapere”, 1976
Ho sempre pensato che il termine stesso "appropriazione culturale" sia fuorviante. Per appropriarsi di una casa, basta trovare il modo di sfilarla ai suoi proprietari - per 'appropriarsi' di una cultura, invece, bisogna frequentarla, apprezzarla, capirla. La cultura nasce sempre dalla contaminazione, dallo scambio vivo, dal gioco che ci fa mischiare e che ci spinge fuori dalle nostre abitudini estetiche ed etiche.
Tra le colte reference aggiungerei che "We're all born naked and the rest Is Drag".
Super interessante, come sempre. Ma sul tema dell'appropriazione culturale ti sei superata.