Era il 2019 quando ho fatto il mio primo viaggio da sola in Asia e avevo ancora un approccio abbastanza ingenuo. Bali nel mio immaginario era l’archetipo del paradiso tropicale: spiagge di sabbia vulcanica, acque cristalline, giungla lussureggiante, spettacolari scogliere, panorami mozzafiato.
Non solo. Bali è l’unica isola induista1 dell’Indonesia, a maggioranza musulmana, e la spiritualità permea ogni gesto, ogni parola. Templi affascinanti con fondamenta intrecciate alle radici di alberi secolari abitati da scimmie, risaie verde brillante, una cucina deliziosa e un'ospitalità calorosa. Un sogno. Per giunta, luglio e agosto sono mesi della stagione secca, perfetta per il turismo italiano.
Ogni località di Bali sulla carta sembra nata per soddisfare un desiderio: lo yoga a Ubud, il surf a Uluwatu, lo snorkeling a Nusa Penida.
Solo che io, nel 2019, ero completamente a pezzi. Congelata, in fiamme, a pezzi. E Bali è stato uno shock.
Non ero abituata a quel tipo povertà. La parola “povertà” è un abisso a livello filosofico, ma la disparità di mezzi materiali tra le persone che coabitano nelle zone più turistiche di Bali ti spacca il cervello. Non mi dimenticherò mai la scena di una bambina piccolissima che mangiava dei noodle per terra insieme a una cane, poco distante da un mega resort. La prima volta che vedi con i tuoi occhi, per quanto tu possa essere consapevole del privilegio di cui godi, si strappa qualcosa. Ti senti uno schifo, perché la realtà ti sbatte in faccia che tra te e quella bambina non c’è nessuna differenza, eppure c’è tutta la differenza del mondo.
A questo punto si possono avere molte reazioni. Prima ti parte la sindrome da crocerossina, che ha sempre un pizzico di mania di onnipotenza: vuoi salvare tutti. Poi ti tormenti, perché capisci che sei una goccia nel mare e questo ti causa frustrazione. Qual è il problema allora? La povertà degli altri o la frustrazione tua? Lì arriva un bellissimo bagno di umiltà e riparti dal presupposto che tu non sei nessuno per giudicare. Cominci a tacere e ad adattarti. Se vuoi aiutare, aiuta, se vuoi farti gli affari tuoi, fatteli, ma per favore non frignare. Ecco che i cosiddetti poveri ti hanno già dato una lezione: loro a te non hanno chiesto proprio niente, anzi. Tutte le mattine qualcuno ti lascia un canang sari sul sellino dello scooter - vassoietti di foglie di palma intrecciate, riempite con fiori, riso, biscotti, incenso. A volte, c’è qualche moneta. A volte, una sigaretta. Sono offerte agli dei. Vogliono proteggerti.
Insomma, il mio primo vero cultural shock l’ho provato qui, dove mi trovo ora e dove sono voluta tornare, ora che sento di aver attraversato il guado esistenziale che mi tormentava allora, per vedere com’è cambiata Bali e guardare come sono cambiata io.
Come sta andando? Ho ritrovato le stesse contraddizioni, più aspre. Non puoi chiamarla vita lenta se ci metti venti minuti a fare un chilometro in motorino, circondato da tubi di scarico che ti intossicano da ogni lato. Esci in stato di trance dopo un rituale di benessere balinese, varchi la soglia di una spa immersa nella natura con alberi vertiginosi e il rumore di cascate, e ti ritrovi in strada ricoperto di smog e polvere, cercando di non calpestare niente e nessuno tre le buche della strada. Più che un paradiso tropicale è un inferno turistico dissestato.
Ah dici che non ti torna con le foto che hai visto? Facciamo un esempio: non c’è nessuno specchio d’acqua al Gate of Heaven del tempio di Lempuyang. C’è solo lo specchio. La prossima foto di ninfa in altalena con le risaie ai suoi piedi o coppia di innamorati che si sfiora alle porte dei templi sul riflesso dell’acqua, io chiamo la polizia. Zoom out: ci sono tre indonesiani con uno sgabello di plastica, un vetro rotto e un iPhone che, con l’inquadratura giusta, dirigono un’orda di turisti in fila per lo scatto del secolo. Loro tre sorridono: ancora non si capacitano di come sia possibile che stiano diventano ricchi così. Nel mentre, la ninfa si rifiuta di assaggiare il klepon per paura di ingrassare e la coppia si rimette in coda perché lui ha sbagliato punto e gli hanno tagliato i piedi.
Not my cup of tea. Ecco perché, mentre succede tutto questo, io e Fabio siamo a suonare il djembe con Catur Hari Wijaya. Sì, hai capito bene. Perché Bali non esiste, ma i balinesi sì. E sono straordinari.
Lo yoga e il suono
Ho incrociato Catur quasi per sbaglio allo Yoga Barn - lo Yoga Barn è il Disneyland dello yoga, se ti interessa ne parlo qui. Dato che siamo tutti malati e dobbiamo tutti guarire (no?), l’offerta di percorsi spirituali dei centri yoga della comunità internazionale si arricchisce sempre di più di percorsi di sound healing.
L’intreccio tra yoga e suono ha radici antichissime. L’Om (o Aum-) è considerato il suono primordiale dell’universo, la vibrazione da cui il mondo ha avuto origine - concetto non così distante forse da alcune interpretazioni mistiche del Vangelo di Giovanni, per cui In principio era il Verbo non significa solo Logos, Parola, ma anche vibrazione, suono.
I mantra (in sanscrito man significa mente e tra significa strumento o veicolo) sono parole, suoni o frasi ripetuti durante la meditazione e altre pratiche spirituali. Un mantra è essenzialmente uno strumento della / per la mente, progettato per aiutare a concentrare il pensiero e favorire la meditazione profonda. Risalgono alle antiche tradizioni vediche dell'India (1500-500 a.C.) ed erano inizialmente utilizzati nei rituali e nelle cerimonie religiose come invocazioni agli dei e per ottenere benedizioni e protezioni divine. Dalle origini a oggi l’uso dei mantra si è evoluto, ha svolto un ruolo chiave nella memorizzazione dei racconti orali e poi nel passaggio alla scrittura, ed è stato integrato in diverse tradizioni spirituali e filosofiche, tra cui l'induismo, il buddismo e lo yoga.
Da una prospettiva semantica, i mantra possono avere significati profondi e simbolici. Ma anche da un punto di vista fonetico, sono considerati suoni sacri che hanno un impatto vibratorio specifico sul corpo e sulla mente. La recitazione di un mantra genera vibrazioni che possono influenzare i centri energetici (chakra) del corpo, facilitando l'armonizzazione e l'equilibrio delle energie interiori.
Da Nikola Tesla in poi, l’idea che gli esseri umani siano fatti di energia non è solo un’idea mistica e l’impatto benefico, addirittura terapeutico, che le vibrazioni sonore possano avere sulle persone è provato scientificamente2.
Tutto questo per dire che il Nada Yoga, lo yoga del suono appunto, e la musicoterapia sono cose meravigliose ed è interessante che si intreccino, ma ogni tanto, qui, be’… Diciamo che scappa un po’ la mano. A Ubud ormai è raro trovare una lezione di yoga che non sia anche un evento-concerto-spettacolo di musica dal vivo, in cui l’insegnante più che una guida è un maestro di cerimonia o un vocalist. È ancora yoga? Secondo me no, ma non è che abbia tutta questa importanza. C’è chi crede di sì e a volte questo basta.
Per quanto mi riguarda, quando ho incontrato Catur quello che mi ha colpito è stata l’energia pazzesca che ha e come riesce a esprimerla facendo scoppiare di suoni travolgenti qualsiasi cosa incontri sul suo cammino. Catur è un musicista poli-strumentista e compositore nato a Java, ma ora vive a Bali con sua moglie Anna Wijaya, musicoterapeuta originaria della Polonia. Insieme, insegnano musica etnica. Catur si è specializzato in ritmi tradizionali di Indonesia, India, Balcani, Nord Africa e Africa Occidentale. La sua arte utilizza una varietà di strumenti, inclusi corde, percussioni e flauti, creando brani con un bel mix influenze culturali. Ma è il djembe che gli ha cambiato la vita.
Da Bali a Mali è un attimo
Il djembe è un tamburo a calice originario dell’Africa Occidentale, pare che sia stato inventato nel XII secolo dalla tribù Mandinke in quello che oggi è il Mali, per poi diffondersi in particolare in Guinea Conakry, Burkina Faso, Senegal e Costa d'Avorio. Ci sono tantissime leggende sulla sua origine. Una racconta di quando l’uomo della foresta, a cui capitava di essere triste, notò che invece gli scimpanzé erano sempre felici. Ne seguì uno e scopri che erano felici perché suonavano il djembe. Decise di rubare alle scimmie lo strumento. Da allora, la musica rende felici gli uomini e agli scimpanzé non è rimasto che percuotersi il petto. Il djembe rappresenta l’unione di tre spiriti che, insieme, creano il ritmo: quello dell’albero da cui si ricava il legno, quello della capra di cui si lavora la pelle, e quello dell’essere umano che lo suona3.
Catur è stato allievo (tra i suoi tanti insegnanti) di Mohammed Bangoura, a sua volta allievo del grande Mamady Keita, stimatissimo maestro di djembe originario della Guinea. Nato nel 1950 nel villaggio di Balandougou, Keita è cresciuto immerso nelle tradizioni musicali della sua cultura ed è noto non solo per la sua straordinaria abilità tecnica e la sua profonda conoscenza dei ritmi tradizionali del djembe, ma anche e soprattutto per la sua capacità di insegnare e diffondere questa forma d'arte a livello internazionale. Ha fondato numerose scuole di percussioni in tutto il mondo con sedi in diversi paesi e ha anche registrato diversi album, workshop, spettacoli e lezioni, contribuendo significativamente alla documentazione e alla diffusione di un repertorio altrimenti a rischio scomparsa.
Mamady Keita è morto nel 2021, la sua vita è raccontata in questo documentario.
Ascoltare Catur che parla di musica è sinceramente emozionante. Sente molto la responsabilità di onorare le culture che lo hanno adottato musicalmente e ama raccontare diversi aneddoti del periodo che ha passato come ospite delle comunità maliane, dove il ritmo non è “solo” arte, è vita, anche nel senso di vita quotidiana. Dal lavoro nei campi, alla preparazione del cibo, fino agli scambi sociali, tutto è ritmo.
Attribuire una caratteristica specifica a un intero gruppo etnico è sempre problematico, perché manca di rispetto alla diversità dei singoli e perché spesso pecca di ingenuità, sia rispetto alla complessità dell’ereditarietà biologica, che a quella delle influenze ambientali e culturali; ma al netto che si tratti di una caratteristica con basi genetiche o culturali, o un mix delle due cose, è chiaro che il senso del ritmo è un tassello fondamentale del puzzle culturale di queste comunità, un tassello che si tramanda di generazione in generazione e che addirittura connota specifici clan, famiglie a cui storicamente è stato assegnato un preciso ruolo sociale: fare musica.
Per provare a catturare questa funzione strutturale del ritmo, Thomas Roebers e Floris Leeuwenberg, un film maker e un sound designer olandesi, hanno girato il documentario FOLI - There is no movement without rhythm, un'esplorazione visiva e sonora della vita e della cultura del villaggio di Baro, in Guinea, attraverso il loro ritmo4. Nel video la persona che parla è Mamady Keita. Ti prego, guardalo:
Imparare a suonare il djembe con Catur è stata un’esperienza bellissima. Abbiamo fatto il nostro debutto a una serata Open Mic a Ubud ed è stato divertentissimo, non mi sentivo così da quando si è concluso il mio meraviglioso anno di teatro. Ma vi risparmio il video.
Taxi Talks
Il giorno dopo l’esibizione, che è stata soprattutto una festa, siamo in macchina verso l’aeroporto. Guida Gede, il nostro vicino di casa, un orgoglioso papà indonesiano che fa l’autista e ha sempre voglia di ridere e di chiacchierare. Ci racconta che ha da poco cambiato macchina, quella precedente era degli anni ‘70. Ho un flashback di tutti i passaggi che ho scroccato nel 2019, girando l’isola su auto improbabili che cadevano a pezzi, ma ti portavano ovunque. Gli racconto che a Bali abbiamo imparato a suonare il djembe. Scoppia in una fragorosissima risata, mi prende in giro. Dice che con il djembe non si suona la musica di Bali. Ma se voglio possiamo cantare insieme Fallin di Alicia Keys. Accetto, mi porge un microfono. Lo tiene in macchina, così quando resta bloccato nel traffico con i suoi clienti li fa divertire. Cantiamo.
Quello balinese è un induismo molto particolare, diverso da quello dell’India. Per esempio, gli indiani credono nel ciclo di reincarnazione delle anime nel mondo, i balinesi credono nella reincarnazione delle anime nella stessa famiglia. Quindi tuo nipote potrebbe essere l’anima del tuo bisnonno reincarnata. Per questo, nell’induismo balinese, arricchirsi economicamente è più importante che in quello indiano e avere figli è ovviamente fondamentale.
Già, l’unico che resta vivo è l’uomo.
“Foli” in lingua malinké significa proprio "ritmo"
Arrivavo da viaggi thailandesi zaino in spalla ad Ubud. La prima volta è stato nel 2008. Un viaggio di rinascita, bellezza e poesia. Si è trasformata nel corso del tempo ma ogni cosa di trasforma. Quello del 2008 è stato il viaggio di preparazione dell’India…
Mi piace sempre la tua scrittura Daria.
Mai titolo fu più veritiero. Ecco come descrivevo Bali in un mio articolo del 2017 - il traffico, ah il traffico! :-) https://www.sarapinotti.com/post/l-altra-faccia-di-bali