C’è molta polvere e un gran fragore di ruote e motori, la strada è trafficata di camion e carri e dilaniata da ruspe che scavano voragini nel catrame dissestato. Il marciapiede non esiste più e le officine meccaniche che si alternano a qualche banchetto di cibo si affacciano direttamente a strapiombo sui lavori in corso. Qualcuno sorride quando passiamo, qualcuno no.
Rallentiamo prima di svoltare a destra e la nube di polvere cala verso terra, rivelando uno spiazzo attrezzato a distributore di benzina. Sembra abbandonato. Imbocchiamo la strada sterrata e piano piano le ultime tracce urbane si diradano lasciando spazio ad arbusti secchi, alberi di bambù e tracce di serpenti.
Accostiamo vicino a una struttura di pali conficcati al suolo e assi di legno irregolari, circondata da un cortile di rottami e botti arrugginite. Ora c’è un silenzio denso di caldo e sudore, il fumo nero di un piccolo falò di rifiuti si appiccica alla pelle e una figura umana con un bastone in mano ciondola intorno al fuoco. Sotto strati di croste e sporco si riconoscono forme femminili sfatte, appena velate da uno straccio senza colore.
Il ragazzo khmer che guida la moto con attaccato il carro da cui io e le altre volontarie guardiamo la scena dà un colpo di clacson. Lei ingrugnisce la faccia poi schiocchia due bacetti nella sua direzione e continua a ciondolare lì intorno come se niente fosse.
Sta per tornare tutto immobile, ma ecco che da non so dove sbuca fuori lui, un piccolo proiettilino velocissimo che si catapulta verso il nostro carro, mentre corre si infila i pantaloni e ruzzola, ma non si ferma, ha il viso contratto in un’espressione scoppiettante di sforzo e felicità. Sembra uscito da un cartone animato, quasi sento le trombette in sottofondo mentre lo guardo saltare gli ostacoli che incontra sul percorso. È un “catricchino” direi io, che quando ero piccola ho accudito un gattino orfano, spelacchiato e cieco, con i vermi nella pancia gonfia e gli occhioni putridi di pus. Faceva talmente schifo che era dolcissimo e straziante, lo avevo chiamato Catricchio, quasi un’onomatopeica della fatica che faceva a crescere.
Sono tutte un po’ simili le tappe che si succedono nel percorso del pulmino che attraversa il villaggio di Phum Thmey, nel distretto di Kampong Cham, in Cambogia: eccone un altro che saltella come un grillo nudo tra i rottami e i sassi che sono la sua casa, si cerca i vestiti tutto da solo, li trova sotto gli occhi senza giudizio degli altri bambini che aspettano sul carretto e sotto i miei che sono languidi e paralizzati. Si lancia come un piccolo missile verso di noi e si arrampica sul carro: “Heeelloo!!!” gli canticchio tutta sorridente, come se l’unica cosa importante fosse che sono felice di vederlo.
La fermata successiva è davanti a una palafitta di cemento su due piani, agghindata con qualche pezzo di lamiera a fare da soffitto e stralci di stoffa che appesi alle due pareti separano lo spazio e creano profondità. Per un momento ho la sensazione di avere davanti una scenografia teatrale. Ma è tutto vero. Al piano terra vedo solo due galli, ciascuno isolato nella propria gabbia, una mucca molto magra in piedi vicino a un’amaca e per terra due cani e una capra, sdraiati immobili. Poi mi accorgo del braccio di un adulto che penzola fuori dall’amaca.
Anche qui, da non si sa dove spunta un bambino che indossa una divisa da basket piccolissima e lercia come lui e viene verso di noi. Ha in viso un’espressione seria e scura, lo sguardo è spento e fisso. Supera la capra e qualcosa in questo suo movimento rivela di colpo quello che avevamo già notato senza realizzarlo: la capra è morta, probabilmente di stenti.
L’insegnante khmer che è sul carro con me scende e va a controllare. Scoprirò che questa è la casa da cui proviene anche lei, anche se adesso la sua vita è cambiata. Afferra il muso dell’animale con due dita e lo lascia ricadere a terra. Il collo resta in una posizione strana, innaturale, e si solleva una piccola nuvola di insetti.
La ragazza risale sul carro senza guardarci negli occhi. Ci siamo, andiamo a scuola.
Durante la riunione del venerdì sera Nicola lo ripete a tutti: qui siamo educatori. Ci sono delle regole da rispettare, che sono il frutto di anni di esperienza diretta con i bambini. Quello che a noi può sembrare un gesto semplice e innocuo, come scattare una foto o comprare un regalo, può lasciare lunghi strascichi nella loro vita, che restano da gestire anche quando i volontari se ne vanno.
Qui non si viene per fare le stories su Instagram, non importa quanti follower hai tu e quanto bisogno di visibilità ha l’associazione: i bambini vengono prima di tutto. Sia i loro sorrisi, che le loro lacrime, sono soltanto loro.
“Le grandi Ong in televisione trasmettono immagini di bambini che piangono, piangono, piangono. “Donate un sorriso” chiedono a noi occidentali spaparanzati sul divano. Come se gli altri dovessero elemosinare un po' di felicità a noi, che ne abbiamo in abbondanza. La realtà è diversa. Qui, il sorriso ce l'hanno, ed è enorme. Potente. Contagioso. Quello che non hanno è un futuro, un'alternativa. Una propria libertà. Viva la vida non esiste per regalare sorrisi, perché non ce n'è bisogno. Esiste per educare, formare, insegnare. Per dare a chi non ha colpa un'istruzione per fuggire da qui e avere la possibilità di vivere una vita diversa, che non sia fatta di droga, noia e ignoranza. È un'impresa. Dura e difficile. A volte fa male. Ma è possibile, e questo è tutto ciò che conta.” (Andrea Tognini, volontario di Viva La Vida Onlus)
Offrire un'alternativa a chi non ha mai avuto scelta. Per questo Nicola ha costruito la scuola dove ogni giorno questa piccola grande mandria di bambini sperduti trova la sua isola che non c’è.
Secondo rilevamenti del 2020, in Cambogia il tasso di natalità è di circa 21 nascite per 1.000 persone1; 44 bambini ogni 1.000 nati vivi in un dato anno muoiono entro il primo anno di vita2.
Come in molte altre parti del mondo, le cause della mortalità infantile sono legate a condizioni che potrebbero essere prevenute o trattate con l'accesso a cure mediche adeguate e a condizioni di vita migliori, come la malnutrizione e l'accesso limitato a servizi igienico-sanitari adeguati - mi ci vorrà un po’ prima di notare che nei dintorni di ogni baracca che ho descritto prima, c’è sempre un piccolo bagno esterno con la scritta “Built by Viva La Vida”.
Diversamente da altre parti del mondo, in Cambogia giocano un ruolo anche le profonde cicatrici che ha lasciato il regime di Pol Pot e dei Khmer Rossi nel tessuto sociale ed economico del paese. Tra il 1975 e il 1979, circa un quarto della popolazione totale fu sterminata: su una stima di circa 7-8 milioni di persone, 2 milioni persero la vita a causa di esecuzioni di massa, lavoro forzato, carestie e malattie. Un caso di “autogenocidio” unico e senza precedenti per le proporzioni e l’impatto sulla popolazione complessiva, portato a termine dal governo comunista contro il proprio stesso popolo, inseguendo l’utopia di una repubblica socialista agraria fondata sui principi del maoismo. Si stima che almeno il 90% degli aiuti esteri ai Khmer Rossi provenisse dalla Cina (solo nel 1975 almeno 1 miliardo di dollari in aiuti economici e militari)3.
Confesso che la sera dopo la mia prima giornata a Phum Thmey, complici anche il caldo e le mestruazioni, ho avuto un’emicrania fortissima e una grossa difficoltà a processare tutto quello che ci circonda qui, e capisco bene quando Nicola fa di tutto per evitare che passi un messaggio sbagliato: non ci sono solo bambini sorridenti e tramonti sul Mekong, né ci sono solo bambini senza famiglia e senza futuro, tra l’immondizia che brucia e la storia che si ferma. Qui c’è un mix di tutti questi elementi che rende impossibile restare e rende impossibile andarsene, ma soprattutto qui c’è una scuola4, dove si insegna a riciclare la plastica e che 2+2=4, ma dove il cuore è più importante dei numeri e si riescono a fare miracoli.
Prima di addormentarmi rivedo la dignità orgogliosa di una bambina di quattro anni che non lascia andare i suoi lacrimoni per non piangere davanti al fratellino, rivedo l’entusiasmo di un bambino che scoppia a urlare di felicità di fronte all’alfabeto disegnato quando capisce di aver composto una parola con le lettere… E mi sento scomparire.
In questo abisso che ricambia il tuo sguardo quando ti ci affacci, Nicola ci sta dentro da otto anni solo per poter tirare fuori gli altri. Se potete, aiutatelo ad aiutarli.

Ultimo dato registrato, fonte: indexmundi.com. FYI in Italia nel 2022 siamo scesi al record negativo di 6,7 per mille.
Fonte: indexmundi.com
Dati provenienti dalla voce “Genocidio cambogiano” su Wikipedia.
Ci sono più progetti formativi e altri nuovi che arriveranno, con particolare attenzione all’educazione ambientale. A questa pagina i dettagli.
Molto interessante, grazie per questo spaccato di realtà
❤️