"Internet Corporate": Voglio Scendere
Pensavo che Internet unisse le persone, non ho mai pensato che le rendesse stupide. Mi sbagliavo?
Inizia quando scopri qualcosa di interessante, che ti colpisce, di cui sembra che non stia parlando nessun altro. È qualcosa di bello, curioso, sorprendente, oppure brutto, ma rivelatore, qualificante. Dal trend emergente del settore di cui ti occupi, alla riscoperta di un dettaglio della tua vecchia serie TV preferita, che magari all’epoca non avevi notato e oggi si può leggere diversamente: vale tutto. Può essere un’informazione nuova su un’isola remota che ti permette (o ti promette) di vivere un luogo diversamente, fuori dal circuito turistico, o un diverso angolo da cui guardare un recente fatto di cronaca. Può essere letteralmente qualsiasi cosa, l’importante è che sia stimolante a livello cognitivo, e spesso lo è ciò che contribuisce a definire la nostra identità, ovvero qualcosa che marca una differenza tra sé e gli altri. Fatto sta che ti causa una bella scarica di dopamina. Ti piace. A quel punto è probabile che tu voglia farlo sapere agli altri.
Proviamo a osservare più da vicino: forse vuoi solo che anche gli altri lo sappiano, o forse no. Forse vuoi anche che gli altri sappiano che tu lo sai, che tu lo hai saputo prima, che loro lo sappiano da te. Così puoi ottenere un riconoscimento sociale, una piccola forma di potere nel tuo contesto di appartenenza, un ascendente sugli altri. Un’influenza. Altra scarica di dopamina. Ti piace molto.
La dopamina
La dopamina è un neurotrasmettitore che svolge un ruolo chiave in diverse funzioni cognitive, emotive e motorie, in particolare nel circuito di ricompensa e motivazione, quindi nell’apprendimento. Quando ci troviamo di fronte a una nuova informazione che ci stimola cognitivamente, il nostro cervello rilascia dopamina, il che ci fa sentire gratificati e motivati a esplorare ulteriormente, a volerne ancora. Bello, vero? La dopamina viene rilasciata anche quando associamo uno stimolo a una risposta positiva, ovvero quando impariamo a prevedere che riceveremo una ricompensa. Bellissimo. Questo significa che possiamo provare piacere o anticipazione del piacere anche prima di ottenere effettivamente la ricompensa, grazie all'aspettativa che si crea - anche in assenza della ricompensa immediata. Niente di nuovo, è facile accorgersene: l’attesa del piacere è essa stessa piacere.
Il meccanismo di regolazione della dopamina è molto potente e anche molto delicato. Se la ricompensa è maggiore o minore rispetto alle aspettative, il sistema dopaminergico corregge le sue previsioni future (predizione dell'errore di ricompensa).
La dopamina è anche coinvolta nel meccanismo della gratificazione differita, ovvero la capacità di attendere una ricompensa futura piuttosto che cercare una gratificazione immediata. Quando il cervello anticipa una ricompensa lontana nel tempo, la dopamina aiuta a mantenere la motivazione, alimentando la nostra capacità di lavorare su obiettivi a lungo termine. Grazie, dopamina.
Studi sugli animali e sull'uomo, come quelli condotti sul famoso esperimento del Marshmallow Test (che misura la capacità di differire la gratificazione nei bambini, a cui è chiesto di scegliere tra una ricompensa immediata, un marshmallow appunto, o di aspettare per ottenerne due), suggeriscono che chi ha una migliore regolazione dopaminergica tende ad avere un maggiore controllo sull'impulso di cercare ricompense immediate.
Conseguenze esistenziali
Non si tratta solo di marshmallows. La dopamina influenza le nostre decisioni a tutti i livelli. Quando siamo di fronte a più opzioni, il cervello valuta il potenziale piacere di ciascuna alternativa in base alla quantità di dopamina che prevede di rilasciare. Questa dinamica è al centro del concetto di valore soggettivo delle ricompense: più una ricompensa è percepita come piacevole o gratificante, maggiore è il rilascio di dopamina anticipato, e quindi più è probabile che scegliamo quell’opzione.
Gli squilibri hanno conseguenze esistenziali molto significative: troppa dopamina può spingerci verso comportamenti impulsivi o dipendenze, mentre una carenza può lasciarci apatici, privi di energia e motivazione. Questo complesso sistema serve a regolare finemente le nostre risposte emotive e cognitive agli stimoli della vita, in costante bilico tra la ricerca del piacere e la necessità di controllare gli impulsi.
La ripetizione compulsiva di certi comportamenti, come il gioco d’azzardo, l'abuso di sostanze, o anche comportamenti come il controllo ossessivo dei social media1 è spesso alimentata da un rilascio continuo di dopamina nel cervello. Ogni volta che questi comportamenti vengono ripetuti, il circuito della ricompensa si attiva, rinforzando il desiderio di ripetere l'azione per ottenere la stessa gratificazione. Con il tempo, però, questo meccanismo può portare a una diminuzione della sensibilità alla dopamina, costringendo le persone a cercare stimoli sempre più intensi per raggiungere lo stesso livello di piacere. Questo crea un ciclo pericoloso di dipendenza, in cui il cervello diventa schiavo della ricerca incessante di ricompense, a scapito del benessere mentale ed emotivo. È uno dei motivi per cui ci lamentiamo dei social media sui social media.
Il ruolo dell’incertezza
Un elemento che amplifica il rilascio di dopamina durante l'anticipazione è l'incertezza. Quando non siamo sicuri del risultato, l'attesa diventa ancora più eccitante e coinvolgente. Questo è uno dei motivi per cui attività come il gioco d'azzardo o l'uso di social media sono particolarmente attraenti: l'incertezza e l'anticipazione della possibile ricompensa (vincere una scommessa o ottenere un "like") creano un rilascio di dopamina ancora più elevato.
Non significa che siamo tutti schiavi della dopamina. È vero che alcune persone hanno una maggiore propensione alle dipendenze rispetto ad altre e questo può dipendere da una combinazione di fattori genetici, biologici, psicologici e ambientali. Ed è proprio nel mix di questi fattori che si gioca la partita della nostra libertà individuale.
FOMO e JOMO
Magari eri anche partito bene, con il desiderio di condividere, ma ora hai sviluppato una certa dipendenza nei confronti della gratificazione che ottieni quando condividi qualcosa di unico, esclusivo. Solo che l’arena si è parecchio allargata, perché quello che era il tuo contesto di appartenenza ora è una piattaforma da milioni di utenti.
Il termine FOMO (Fear of Missing Out) è stato coniato nel 2004 dal ricercatore Dan Herman, ma ha guadagnato una diffusione globale intorno al 2011, quando i social media hanno iniziato a dominare l'esperienza quotidiana di milioni di persone.
L’uso di acronimi virali come FOMO per descrivere stati psicologici complessi merita qualche precisazione. Da una parte, permette una maggiore consapevolezza e discussione pubblica su temi psicologici che altrimenti potrebbero rimanere trascurati. Dall’altra, rischia di semplificare eccessivamente condizioni emotive e psicologiche complesse, riducendole a frasi generiche.
Rendere la discussione su questa tipologia di fenomeni più accessibile, può quindi ridurre la comprensione della gravità di alcuni problemi di salute mentale, trattandoli come semplici fastidi temporanei, oppure causare epidemie di autodiagnosi sbagliate. Quindi, cautela, sempre.
La "paura di perdersi qualcosa" o di “essere tagliati fuori” è definita come un’ansia sociale legata alla sensazione che gli altri stiano vivendo esperienze più soddisfacenti o gratificanti mentre noi non siamo presenti o non ne siamo parte.
L’esposizione a immagini idealizzate, che mettono in risalto momenti di felicità e successo, amplifica questo effetto dandogli proporzioni innaturali, oltre a veicolare una precisa interpretazione di che cosa dovremmo intendere per “felicità e successo” e quindi contribuire in modo decisivo alla definizione collettiva di valori, che spesso però sono artificiosamente amplificati. Falsi.
I social media, poiché sono strumenti di smisurata amplificazione di dinamiche sociali, a volte finiscono per distorcere quelle dinamiche e allontanare le persone le une dalle altre, invece di aiutarle ad avvicinarsi, come una prima ondata dell’Internet aveva fatto sperare ad alcuni di noi (ciao
), confusi dalla lente degli early adopters e quando ancora le spinte ottimiste non erano così affaticate dalla permacrisi contemporanea.La soluzione alla FOMO parrebbe essere la JOMO, Joy of Missing Out, quindi il piacere di perdersi quegli stimoli cognitivi fatti di ultime notizie, eventi sociali o situazioni esclusive per godere di momenti di tranquillità e introspezione, per accettare e valorizzare i momenti di solitudine.
Questo concetto trova le sue radici nella mindfulness e in altre pratiche che invitano le persone a concentrarsi sul presente e a disconnettersi dalla pressione costante di essere ovunque e fare tutto. Alcuni studi, come quello del professor Cal Newport, autore del libro Digital Minimalism, suggeriscono che una disconnessione consapevole dai social media possa favorire una maggiore qualità di vita, permettendo alle persone di focalizzarsi su ciò che è veramente importante per loro, piuttosto che cercare di seguire continuamente le esperienze degli altri. La crescente tendenza a evitare le news, continuamente riscontrata dall'osservatorio Reuters, può essere interpretata anche alla luce di questo rigetto? I social stanno salvando o uccidendo il giornalismo? Stanno salvando o uccidendo l’attivismo? Ho passato anni a chiedermelo, prima di dare le dimissioni.
Diversi studi hanno dimostrato che le persone che adottano pratiche legate alla JOMO riportano livelli più elevati di soddisfazione e benessere psicologico2: relazioni sociali più profonde e un maggiore senso di controllo sulla propria vita.
“JOMO” è chiaramente un altro acronimo, un’altra tendenza virale sui social. Non sono proprio sicura che impostare così la conversazione ci aiuti a coltivare un vero equilibrio interiore a lungo termine.
Forse è solo un problema di prospettiva, sacrificato sull’altare di una maggiore efficacia divulgativa, o forse è una semplificazione dietro cui tenta di celarsi la stessa dipendenza che nutre la FOMO: nella filosofia della JOMO attribuiamo la causa della gioia a una perdita, e quindi da ultimo rimarchiamo la centralità di ciò da cui vorremmo emanciparci.
LOGGED OUT
Oltretutto, l’opzione di un’esclusione totale implica un’altra perdita, quella di un’importante opportunità di conoscenza di dinamiche e fenomeni che impattano sulla nostra vita in misura enorme, che ce ne accorgiamo o no, che ci siamo dentro o fuori - se milioni di elettori si informano sui social, per esempio, non è che non utilizzare personalmente le piattaforme ci salva dall’impatto che hanno sulla società intera.
Personalmente, ho alle spalle tredici anni di lavoro always on. Mi è scesa una lacrima quando ho ritrovato online la mia traduzione di un’intervista a Derrick de Kerckhove, che avevamo orchestrato con GG3 nel 2011, quando 40kBooks era un ponte importante con il pensiero d’oltreoceano per la cultura digitale in Italia. Internet ci rende stupidi? Ovviamente no.
Su questi temi mi confronto da sempre con miei (ex) colleghi, che perlopiù hanno background creativi e giornalistici, quando non prettamente tecnologici, sprofondando sempre di più in tutte le pieghe intestinali del dibattito tra apocalittici e integrati.
Sherry Turkle, Manfred Spitzer, Cal Newport, Nicholas Carr, David Allen, Linda Stone: disconnettiti.
Clay Shirky, Kevin Kelly, Steven Johnson, Henry Jenkins, Yochai Benkler, Chris Anderson, Don Tapscott, Peter Diamandis: resta connesso.
Provare a capire se la tecnologia digitale sia un salto rivoluzionario nell’evoluzione dell’uomo, che crea uno scarto insanabile e imprevedibile tra un prima o un dopo, o se sia parte di un processo continuo senza soluzione di continuità, che comincia dal fuoco e dalla ruota e chissà dove arriverà, non risponde necessariamente alla domanda che mi faccio io, e forse anche tu, oggi, nella vita di tutti i giorni: come devo vivere? Che cosa devo fare?
Entrambi i fronti presentano defezioni e cambi di maglia, come è giusto che sia in un dibattito sano, ma è chiaro che le leggi sul diritto alla disconnessione non sono campate per aria, per quanto migliorabili.
Lavorare nella comunicazione digitale può essere un osservatorio antropologico straordinario e anche un grande motore di cambiamento sociale, ma se fissi troppo nell’abisso, l’abisso fisserà te. Detto altrimenti, il bilancio tra l’energia che serve per fare certi mestieri digitali e quella che questi mestieri ti restituiscono a lungo termine secondo me è negativo, devi essere molto lucido nel capire quando devi smettere di investire e non cadere nella fallacia dei costi affondati4.
Nel frattempo, l’evoluzione delle piattaforme e dei formati (TikTok, video, intrattenimento) ha reso quelle che prima erano reti sociali, abbastanza circolari, dei mezzi di comunicazione paradossalmente più tradizionali, con approcci top-down simili alla vecchia televisione (consumo passivo maggioritario, creator economy, opacità degli algoritmi). Seguire
, please.Non a caso si parla sempre di più di creator burnout. Sembra che i creator vivano cicli di esaurimento legati alla creazione continua di contenuti, per alimentare gli algoritmi e le aspettative del pubblico, al mantenimento di un’elevata visibilità, che spesso rompe il confine tra sé pubblico e sé privato, e alla gestione delle crisi reputazionali e del cyberbullismo. Sarà anche un First World Problem, ma è un problema nostro a tutti gli effetti: stiamo parlando di persone, innanzitutto e a prescindere, e in seconda battuta di persone con potere mediatico, sulle nuove generazioni in particolare, per cui oltre che da fonte di informazione fungono anche da modello. Sminuire i problemi di salute mentale non mi sembra una buona idea per nessuna categoria di persone, e onestamente mi sembra ce ne siano tanti.
Ideologia tecnologica
L’unica cosa che mi porto sempre a casa io, è che non è proprio possibile ridurre il tema della tecnologia a quello di un mezzo, un mero strumento nelle mani dell’uomo, che può essere positivo o negativo in base allo scopo per cui si utilizza. Per quanto possa sembrare un’intuizione di buon senso, credo riveli un’ingenuità ormai non più innocente. Per esempio, cito dalla newsletter di
:La piattaforma [Facebook] ha reso essenziale mostrarsi per quello che si è, o meglio, per quello che si vuole sembrare. Questo passaggio non è stato solo tecnologico, ma culturale: ha trasformato la rete da un luogo di anonimato e libertà in uno spazio di automediazione e auto-sorveglianza.
L’enfasi sull’identità reale ha spostato il centro dell’esperienza online dalla comunità al sé, dall’interazione collettiva alla performance individuale. Sin dalle sue origini, la piattaforma non si è limitata a osservarci: ci ha attivamente spinti a parlare di noi stessi, a rivelarci, a trasformare ogni frammento della nostra vita in un contenuto condivisibile. Su Facebook, ogni interazione – dal post al commento, dal like alla condivisione – è parte di una costruzione continua della propria immagine pubblica. A un certo punto, erano tutti esperti di qualcosa, tutti avevano un’opinione da esporre, un oggetto da mostrare, un ricordo da condividere. In questo sistema, persino le nostre emozioni sono diventate una merce: ci è stato offerto uno spazio per esprimerci, ma al prezzo di vendere i nostri dati al miglior offerente.
La tecnologia è una modalità attraverso cui l'uomo si rapporta al mondo, è una precisa visione del mondo. Vostro onore, la visione del mondo che sta veicolando in questi anni Venti mi fa schifo. Non so voi, non so come, non sarà facile, ma io voglio scendere.
Se ne parla ormai da parecchi anni, le ricerche sono molte, linko a titolo di esempio questo articolo di The Guardian: Social media copies gambling methods 'to create psychological cravings
Hernandez e colleghi, 2018
Giuseppe Granieri, il mio primo direttore editoriale, Maestro di Internet. Ho lasciato a
le parole che non io non ho avuto per salutarlo quando se ne è andato quasi un anno fa.È un errore logico e psicologico in cui si continua a investire in una decisione, progetto o attività, semplicemente perché sono già stati fatti investimenti di tempo, denaro o risorse, anche quando queste risorse non possono essere recuperate e proseguire potrebbe non essere la scelta migliore.
Come sempre vai dritta al punto... e io sono con te. Se e quando trovi il modo di "scendere" fammi un fischio :-)