KPI della felicità
Perché le cose che pensiamo che ci renderanno felici spesso non lo fanno
Negli ultimi mesi ho seguito The Science of Well-Being, un corso online gratuito della professoressa Laurie Santos dell’Università di Yale. Parte da una domanda semplice e scomoda: perché crediamo che certe cose ci renderanno felici, quando in realtà non lo fanno?
Santos esplora i risultati di decine e decine di studi: tutti indicano che ci stiamo sbagliando — e in modo sistematico.
Pensiamo che soldi, successo, un corpo perfetto o un partner ideale ci garantiranno la felicità. Ma non è proprio così:
Oltre un certo reddito (circa $75.000 all’anno negli Stati Uniti), guadagnare di più non migliora il benessere soggettivo (Kahneman & Deaton, 2010).
Dare grande importanza al denaro e ai beni materiali è un fattore che predice meno soddisfazione di vita e più sintomi depressivi vent’anni dopo la rilevazione (Nickerson et al., 2003).
Dimagrire o sottoporsi a chirurgia estetica non migliora il benessere emotivo — spesso lo peggiora (Jackson et al., 2014; von Soest et al., 2012).
Le nostre previsioni emotive sono spesso distorte: pensiamo che un buon voto, un lavoro importante o una delusione amorosa cambieranno tutto… E invece, dopo un breve picco emotivo, tendiamo a tornare al nostro stato di benessere abituale qualsiasi cosa succeda (Gilbert et al., 1998).
Insomma: non è la realtà a ingannarci. È l’idea che ce ne facciamo.
Tutto quello che pensi ti renderà felice… probabilmente non lo farà
“Buoni voti, un lavoro ben pagato, un bel curriculum. Una relazione stabile, magari un master. La lista delle cose che dovrebbero renderci felici la conosciamo tutti. Ma se fosse tutta sbagliata?”
È questa la domanda con cui si apre il corso di Yale The Science of Well-Being, tenuto dalla professoressa Laurie Santos. Che la platea sia quel tipo di studente rende l’affermazione ancora più scomoda.
Il percorso parte da una promessa forte (quasi fastidiosa): scoprirai che gran parte di ciò che pensi ti renderà felice, in realtà non lo farà.
E non si tratta di filosofia astratta. Parliamo di psicologia sperimentale, con dati raccolti su centinaia di studenti, lavoratori, adulti di ogni età. Vediamo qualche esempio più nel dettaglio.
Il lavoro dei sogni
In uno studio condotto da Dan Gilbert e colleghi, alcuni studenti universitari hanno partecipato a una simulazione: si candidavano per un lavoro estivo molto desiderato.
Alcuni ottenevano il posto, altri no.
Tutti dovevano prevedere quanto sarebbe cambiato il loro percepito di benessere in caso di rifiuto - la definizione della felicità è quello che stiamo cercando, quindi non ne viene data una a priori, ma si testa l’impatto di eventi ritenuti fattori chiave per la felicità dagli stessi soggetti sulla loro percezione del loro benessere.
Risultato?
Tutti si aspettavano un crollo del benessere.
Ma quando ricevevano davvero la notizia negativa, il calo di felicità era minimo.
E se riuscivano a giustificare il rifiuto (es. “non era il posto giusto”, “non hanno capito il mio profilo”), non si registrava nessuna diminuzione del benessere.
Uno studio longitudinale condotto da Nickerson e colleghi nel 2003 ha esaminato l'impatto a lungo termine dell'importanza attribuita al successo professionale. I partecipanti che, da giovani, consideravano il denaro e i beni materiali come obiettivi principali, vent'anni dopo riportavano livelli inferiori di soddisfazione nella vita e sintomi depressivi più pronunciati rispetto a coloro che non attribuivano la stessa importanza a questi aspetti (ResearchGate).
Il "lavoro dei sogni" potrebbe essere una gabbia se definito da soldi e status. Sebbene ottenere una posizione desiderata possa inizialmente aumentare la soddisfazione lavorativa, questo effetto tende a diminuire nel tempo, un fenomeno noto come "effetto postumi da luna di miele" . Inoltre, una revisione di oltre 60 studi ha identificato sei elementi chiave per un lavoro soddisfacente (80,000 Hours):
Attività coinvolgenti.
Contributo positivo agli altri.
Competenze adeguate.
Colleghi di supporto.
Assenza di aspetti negativi significativi.
Compatibilità con la vita personale.
Questi fattori, più che il prestigio o il salario elevato, sembrano essere determinanti per la soddisfazione lavorativa.
In sintesi, mentre perseguire obiettivi materiali o professionali può offrire soddisfazioni temporanee, la felicità duratura sembra derivare da elementi più profondi e significativi, come relazioni autentiche, crescita personale e contributi positivi alla comunità.
Ciò che immaginiamo ci farà soffrire… Spesso non lo fa.
E ciò che inseguiamo per sentirci meglio… Spesso non cambia nulla.
Uno stipendio alto
Quando si chiede alle persone quanto dovrebbero guadagnare per essere felici, la risposta è sempre “più di quello che guadagno ora”.
Chi guadagna 30.000$ dice che gliene servono 50.000
Chi ne guadagna 100.000 dice che gliene servono 250.000
Lo riporta Sonja Lyubomirsky in The How of Happiness, e i dati si confermano in decine di studi: il riferimento si sposta continuamente verso l’alto.
Non raggiungiamo mai la soglia percepita.
Appena arriviamo, quella soglia si sposta.
Il confronto è una trappola cognitiva
Il problema non è tanto il desiderio in sé. È l’illusione che esista un punto d’arrivo definitivo.
Che esista un “quando avrò questo, allora sarò felice”.
Ma ogni conquista, ogni traguardo, viene assorbito rapidamente dalla nostra mente.
È il fenomeno chiamato “adattamento edonico”: torniamo quasi sempre al nostro livello abituale di benessere, anche dopo successi o fallimenti rilevanti - quindi il grande tema, aggiungo io, è come ci prendiamo cura di quella baseline che prescinde dagli eventi, ma dipende molto dallo stile di vita e dallo stato del nostro sistema nervoso.
Ciò che cambia tutto, invece, è il confronto:
con gli altri,
con versioni idealizzate di noi stessi,
con modelli proposti da social, pubblicità, università, famiglie.
Te ne accorgi quando ci sono giorni in cui va tutto bene, eppure qualcosa stona.
Hai lavorato, fatto la spesa, risposto ai messaggi. Nulla da segnalare.
Eppure c’è quella sensazione vaga — come un sottofondo stonato.
Come se la tua vita fosse... Un po’ meno di quanto dovrebbe essere.
Non è un crollo. È più sottile.
Una specie di scivolamento silenzioso, difficile da nominare.
È la pressione sociale.
È quella voce che dice che potresti fare di più, essere di più, avere di più.
E che per qualche motivo, non ci sei ancora arrivato.
Ma… Arrivato dove?
Non desideriamo ciò che ci fa bene. Desideriamo ciò che ci sembra giusto.
Timothy Wilson e Dan Gilbert, due psicologi cognitivi, hanno parlato a questo proposito di miswanting: il desiderare qualcosa che credevamo ci avrebbe reso felici — e che invece non lo fa.
Succede quando immaginiamo il futuro con lenti sbagliate. Quando decidiamo cosa vogliamo non in base a ciò che ci fa stare bene davvero, ma a ciò che “dovrebbe” farlo. A ciò che vediamo funzionare per gli altri.
Eppure, anche quando lo capiamo, il nostro cervello continua a fidarsi delle sue conclusioni. Come nelle illusioni ottiche. Guarda questa immagine: due cerchi arancioni, uno circondato da cerchi grandi, l’altro da cerchi piccoli. A colpo d’occhio, sembrano di dimensioni diverse. Eppure sono identici.

Il trucco? Il contesto in cui li osservi. I cerchi attorno influenzano la tua percezione.
Anche se lo sai, anche se te lo dicono, il tuo cervello continua a “vedere” due grandezze diverse.
Ecco cosa accade anche con le emozioni e le scelte di vita. Pensiamo che certe opzioni — un lavoro, una casa, un traguardo — siano “grandi”, “importanti”, “necessarie”. Ma il nostro giudizio è spesso condizionato da ciò che ci circonda: le aspettative degli altri, i modelli sociali, le storie che vediamo online.
Non vediamo il valore assoluto delle cose. Le vediamo solo in relazione a qualcos’altro.
Uno degli errori più insidiosi che facciamo è credere che la felicità sia una misura assoluta. In realtà, è sempre una differenza percepita tra ciò che abbiamo e ciò che pensavamo di avere.
Tra dove siamo e dove crediamo che dovremmo essere.
È il motivo per cui chi arriva secondo alle Olimpiadi spesso è più frustrato di chi arriva terzo.
Lo ha dimostrato uno studio classico condotto da Medvec, Madey e Gilovich nel 1995: analizzando le espressioni facciali degli atleti sul podio, hanno scoperto che i medagliati d’argento apparivano meno felici dei vincitori del bronzo.
Perché?
Il secondo pensa che ha sfiorato l’oro. Il terzo, invece, che ha rischiato di restare senza medaglia.
Non è il risultato a fare la differenza. È il confronto mentale con lo scenario alternativo.
Vale per il podio, ma anche per la vita quotidiana.
Uno stipendio che avresti sognato dieci anni fa oggi ti sembra stretto, perché hai saputo di un tuo collega che guadagna più di te. Perché tua cugina è diventata team leader. Perché un tizio su LinkedIn, che non conosci nemmeno, ha aperto una startup in Portogallo e gira in bicicletta tutto l’anno.
E così finisci per pensare che quello che hai non è abbastanza — ma quanto è “abbastanza”? Siamo abituati a pensare alla sufficienza come al minimo sindacale a cui gli ambiziosi non si adattano, e perdiamo di vista che potrebbe essere la misura giusta per noi, quell’equilibrio che stiamo cercando.
Se il benessere è una gara
Un altro studio condotto ad Harvard ha mostrato quanto siamo influenzati dal confronto anche quando si tratta di scegliere razionalmente.
È stato chiesto a un gruppo di persone quale opzione preferissero:
guadagnare $50.000 all’anno in un contesto dove tutti gli altri ne guadagnano $25.000,
oppure guadagnare $100.000 all’anno, ma in un contesto dove tutti gli altri ne guadagnano $250.000.
La maggioranza (56% dei partecipanti) ha scelto la prima opzione.
In altre parole: preferiamo guadagnare meno, pur di guadagnare più degli altri.
Non scegliamo ciò che è meglio in termini assoluti. Scegliamo ciò che ci fa sentire “vincenti” nel confronto. Anche a costo di rimetterci.
Quanto può diventare pericoloso questo gioco se iniziamo a confrontarci con ciò che non esiste?
Quando la realtà non regge il confronto con la fantasia
Più guardiamo TV, pubblicità, Instagram, TikTok, più la nostra idea di “normalità” si deforma.
Inizia a sembrarci normale avere case enormi, corpi perfetti, vite sempre brillanti e relazioni impeccabili.
E allora la nostra casa, il nostro corpo, la nostra vita… Ci sembrano insufficienti. Anche se vanno bene.
Ogni ora in più davanti a contenuti patinati, ogni scroll, ogni like, rafforza uno standard finto.
E a un certo punto cominciamo a voler assomigliare a qualcosa che non esiste nemmeno per chi lo mostra.
Anche l’amore ne risente
C’è un vecchio studio — brutale ma utile — in cui a un gruppo di uomini vengono fatte vedere immagini di modelle da rivista (Kenrick, D. T., Gutierres, S. E., & Goldberg, L. L., 1989)
In una situazione sperimentale progettata per minimizzare interferenze, prima e dopo questa esposizione viene chiesto loro di valutare la propria partner.
Indovina un po’? Dopo l’esposizione alle modelle, la valutazione cala.
Ma la partner non è cambiata. È cambiato il punto di riferimento.
Il confronto ha abbassato la percezione.
Quante volte succede nelle relazioni quotidiane?
Ci abituiamo a confrontare chi abbiamo accanto con modelli esterni — film, social, ex idealizzati, storie altrui — e finiamo per perdere di vista la persona reale, con le sue verità quotidiane, nello stile relazionale unico che ha con noi e che ci fa sentire amati. Perdiamo di vista l’unica cosa davvero importante che abbiamo: l’esperienza dell’altro.
E poi c’è il confronto più pervasivo di tutti: quello con noi stessi. O più precisamente: con la versione ideale di noi stessi. That Fucking Doppelgänger. A volte questa versione ideale è il risultato di una narrazione accumulata nel tempo: genitori, insegnanti, libri, amici, social, podcast. Una voce interiore che dice: “Guarda quante opzioni. Potresti fare di più. Potresti essere meglio.”
E magari è vero. Ma a volte, quella voce non ti chiede di crescere. Ti chiede solo di assomigliare a qualcun altro. E in quel momento, smetti di essere alleato di te stesso.
Uscirne? Si può. Ma non si fa tutto in una volta.
Non serve spegnere tutto, cancellarsi dai social, abbandonare il mondo - anche se la tentazione c’è.
Serve rimettere al centro la domanda giusta.
Non: “Come sto rispetto agli altri?”
Ma: “Cosa mi fa stare bene, davvero, oggi?”
Non: “Dovrei essere più avanti?”
Ma: “Sto andando nella mia direzione, o sto solo cercando di non restare indietro?”
Ogni volta che senti di essere “in ritardo” o “non abbastanza”, fermati un momento e chiediti: secondo chi?
A volte, questa sola domanda basta per interrompere il pilota automatico del giudizio.
Non servono stravolgimenti.
Servono solo piccole deviazioni consapevoli, ogni giorno. Dopodiché io credo moltissimo nel coltivare una relazione con se stessi più profonda rispetto a quella a cui ci abituano i ritmi delle società urbane contemporanee, motivo per cui ora vivo in montagna.
Dov’è che l’ho già sentito
Il grande merito di The Science of Well-Being sono i dati scientifici e gli studi sperimentali su cui è costruito - te lo consiglio - ma le sue conclusioni risuonano chirurgicamente con insegnamenti molto più antichi.
Il buddhismo, per esempio, ci parla da millenni dell’insoddisfazione che nasce dal desiderare ciò che non abbiamo, e dal confrontarci con ciò che non siamo.
Parla dell’impermanenza delle emozioni. Dell’illusione che felicità significhi possesso. Della sofferenza che nasce quando ci allontaniamo da ciò che è, per inseguire ciò che dovrebbe essere.
Magari la senti anche tu, quella voce che ci invita a tornare a casa, nel presente, dentro noi stessi, e i numeri non ti servivano. O magari stai pensando che il confronto, in sé, non è sempre negativo. Può ispirare. Può motivare. Può perfino ricordarci che qualcosa di diverso è possibile.
Vero, ma c’è una differenza sottile — e fondamentale — tra il confronto come stimolo e il confronto come misura del nostro valore.
Quando ci confrontiamo per crescere, lo facciamo con radici salde in noi stessi. Quando invece il confronto diventa continuo, automatico, fuori contesto, il rischio non è “giocare al ribasso”, ma non giocare affatto la nostra partita. Perdere la nostra strada per arrivare primi in quella di qualcun altro.
Crescere non significa sorpassare. Significa avvicinarsi sempre di più a ciò che siamo chiamati a essere — e questo richiede uno sguardo più radicato, più silenzioso, più intimo.
Non si tratta di rinunciare al “successo”, ma di scegliere quale metrica vogliamo usare per misurarla. Pensa agli uffici: vuoi misurare il tuo valore con lo spazio che occupi o con il tempo che liberi? Riformulo un adagio da product manager: mai sottovalutare quanto la scelta di una metrica possa plasmare, piuttosto che misurare, le caratteristiche della cosiddetta realtà.
Bè, direi che qui dentro c'è molto delle quattro nobili verità dei buddisti. :)
Ho apprezzato moltissimo questo articolo. Grazie ☺️