Lo faccio per SPORT
Che cosa dice della cultura di un Paese lo sport più praticato dalla sua popolazione?
Quando si parla di sport in Italia, il primo pensiero va al calcio.
Secondo i dati dell’Osservatorio sullo Sport System di Banca Ifis, sono circa 35 milioni gli italiani maggiorenni che seguono e si interessano ad almeno uno sport, e 15,5 milioni gli italiani che praticano regolarmente attività sportive - circa il 27% della popolazione totale.
Le elaborazioni dell’Ufficio studi di Banca Ifis su dati rilevati da YouGov riportano che il 63% degli italiani maggiorenni che praticano almeno uno sport è di sesso maschile. In tre regioni si concentra il 38% dei praticanti sportivi: Lombardia 18%, Lazio 11%, Campania 9%.
La classifica degli sport più praticati in Italia nel 2022 riporta il calcio in prima posizione, con il 34% della popolazione coinvolta, il nuoto al secondo posto con una percentuale del 29%, a seguire ciclismo 26%, tennis 20%, sci 26%, pallavolo 14%, pallacanestro 13% e atletica 10%.
Sono esclusi da questa classifica il fitness e la ginnastica, che con 2,2 milioni partecipanti si assesterebbero al terzo posto. Perché? Che cosa definisce un’attività come sportiva?
Generalmente si considera sport ogni attività che richiede abilità fisica e tattica, si svolge in un contesto competitivo e segue regole standardizzate da un’organizzazione. Per questo alcune classifiche escludono fitness e ginnastica, specialmente quando queste sono praticate come attività ricreative o di mantenimento, senza un focus competitivo evidente. Nelle definizioni più formali, gli sport sono spesso visti come attività regolate da federazioni e organizzazioni, con competizioni standardizzate e riconosciute a livello locale, nazionale o internazionale.
Facile, no? No. Facciamo un test:
Che cosa sia uno sport è più complesso di quanto si pensi e può variare molto culturalmente: in alcuni casi, considerare una disciplina uno sport sembra valorizzarla, in altri sembra sminuirla (della questione riguardante lo yoga e l’appropriazione culturale ho parlato qui. Comunque, lo sport più praticato in India è il cricket, che - ops - è di origine inglese.
Leggendo la classifica degli sport più praticati in Italia dalla Thailandia quello che si nota subito è che non compaiono sport da combattimento o arti marziali1. Non sono riuscita a trovare dati specifici sulla partecipazione alle arti marziali in Italia2 in termini di numeri esatti o statistiche dettagliate. È evidente che esiste un interesse diversificato per queste discipline, come è evidente che non è maggioritario.
Che cosa dice della cultura di un Paese lo sport più praticato dalla sua popolazione?
Provocazione: i veri eroi del calcio italiano sono gli Ultras?
Quali sono i valori che insegna il calcio? Che cosa dice dell’Italia come popolazione, come Paese? Il calcio promuove una varietà di valori sociali e personali che includono il gioco di squadra, la cooperazione, la disciplina, e il rispetto per gli altri giocatori e per le regole del gioco. Come altri sport, enfatizza l'importanza della perseveranza e dell'impegno per il raggiungimento degli obiettivi, sia individuali che collettivi. A livello professionistico, promuove anche valori legati all'eccellenza e al successo competitivo. Di fatto, il sistema calcio italiano tende alla glorificazione di singoli campioni, con un approccio direi abbastanza individualista.
Ma se dovessi menzionare il singolo valore più importante su cui fa leva il calcio italiano a livello collettivo io direi un forte senso di appartenenza e identità locale, o talvolta nazionale, che riflette una suddivisione identitaria regionale o “localistica” che onestamente a 163 anni dall’unità d’Italia non possiamo ancora dire di aver superato - anche senza presupporre che sarebbe giusto o sbagliato farlo.
Se questo è vero, forse i veri eroi del calcio non sono più i calciatori, che notoriamente cambiano maglia. In un sistema nel migliore dei casi guidato dall’economia, nel peggiore corrotto, il vero eroe potrebbe essere il dodicesimo uomo in campo, ossia la tifoseria - compresa la sua versione estrema, il fenomeno ultras.
Gli ultras, così come li ha documentati Pierluigi Spagnolo nel suo libro I ribelli degli stadi3, sono una comunità variegata e trasversale, che si estende attraverso tutte le classi sociali, e non soltanto composta da elementi violenti come spesso è ritratta. Il denominatore comune è quel famoso attaccamento alla maglia in cui si traducono i bisogni emotivi di appartenenza, solidarietà, resistenza e ritualità, che nelle altre strutture sociali, come quelle religiose (la Chiesa) o politiche (i partiti), o tecnologiche, sembrano non trovare (più) ascolto o risposta.
Il tifo estremo diventa un canale per riempire possibili vuoti esistenziali, ma anche per dare sfogo alla violenza, altro aspetto antropologico da non trascurare: la competizione può essere letta come una forma di sublimazione della violenza. Senza scomodare Freud, è evidente che attraverso lo sport, praticato o vissuto intensamente come nel caso delle curve, gli impulsi aggressivi possono essere trasformati in azioni regolate e controllate, fornendo agli individui e ai gruppi un modo per gestire e ridirigere tali energie in maniera costruttiva, senza minacciare la propria incolumità, quella altrui, o il monopolio legittimo della violenza che ha lo Stato - almeno finché qualcosa non va storto.
Ora, per quanto sia chiaro che il calcio italiano sia connotato a livello valoriale, non credo sia altrettanto facilmente riconducibile a una cornice di pensiero filosofico specifica come accade per altre arti marziali.
La prima regola del Muay Thai è non parlare male del Muay Thai
Come l’Italia è famosa per il calcio, il Brasile lo è per il Brazilian Jiu-Jitsu e la Capoeira, il Giappone per Judo, Karate e Aikido, la Thailandia per il Muay Thai. A meno che non tu non chieda a un cambogiano.
Il cambogiano ti risponderebbe che il governo thailandese ha soffiato il Kun Khmer alla Cambogia, l’ha chiamato Muay Thai e se n’è appropriato: entrambe le nazioni rivendicano quell’identica forma di combattimento come parte del loro patrimonio culturale, sostenendo di aver contribuito in modo decisivo allo sviluppo di questa disciplina fatta di pugni, calci, ginocchiate e gomitate. La diatriba non è solo una questione di orgoglio nazionale ma rispecchia anche l'importanza delle arti marziali nella storia e cultura del Sud-Est asiatico: la Thailandia vede il Muay Thai come uno sport nazionale, celebrato e promosso a livello globale, mentre la Cambogia considera il Kun Khmer un simbolo di resistenza e resilienza culturale.
Non tenere in giusta considerazione il Muay Thai, e per giusta considerazione intendo quella che il re di Thailandia ritiene sia giusta, è una faccenda che potrebbe farsi molto seria, come dimostra il caso di Dave Leduc, un atleta canadese noto per il suo successo nel Lethwei, l’arte marziale tradizionale del Myanmar che si caratterizza per l'assenza di guantoni e la legalità dei colpi di testa. Leduc ha ottenuto fama internazionale diventando il primo non-birmano a conquistare il titolo mondiale Openweight di Lethwei, e ha difeso questo titolo in numerose occasioni, dimostrando una dominanza rara per un atleta straniero in uno sport così legato alla tradizione birmana - potete guardarlo lottare contro il campione locale Tun Tun Min.
La carriera di Leduc non è però priva di controversie, specialmente in relazione al Muay Thai. Nel 2021, Leduc ha pubblicato sui social dei contenuti in cui descriveva il Muay Thai come una versione "ammorbidita" del Lethwei: “If Lethwei was easy, it would be called Muaythai”.
A causa di queste dichiarazioni, il Ministero della Cultura thailandese ha imposto a Leduc il divieto di ingresso in Thailandia4.
È evidente che le pratiche marziali non sono solo metodi di difesa personale, di addestramento militare (il legame con la preparazione bellica è molto chiaro storicamente) o di competizione sportiva: sono anche espressioni vitali dell'identità e della storia di un popolo; sono porte aperte su visioni del mondo molto connotate, portatrici di valori specifici che vanno aldilà della forza fisica e del suo esercizio, anche se - OMG - non possiamo dimenticare che la violenza resta una parte integrante di queste pratiche.
Ogni arte marziale porta con sé un codice etico che riflette la cultura da cui è nata. Dall'antico pugilato greco e romano ai rituali di combattimento degli indigeni amazzonici, fino ai codici d'onore dei samurai giapponesi, sono intrise di profonde tradizioni culturali e sono state modellate dalle esigenze sociali e storiche delle popolazioni che le hanno sviluppate. Nel tempo, non solo hanno aiutato gli individui a proteggersi da minacce fisiche, ma sono diventate anche strumenti per la formazione del carattere e l'educazione morale, plasmando a loro volta l'identità collettiva delle culture che le hanno originate.
Accogliere la violenza?
La definizione di violenza dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è "l'uso intenzionale della forza fisica o del potere, reale o in forma di minaccia, contro se stessi, un'altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che risulti o abbia alta probabilità di risultare in lesioni, morte, danni psicologici, sviluppo deficitario, o deprivazione".
Questa definizione è ampiamente utilizzata per comprendere e affrontare la violenza in diversi contesti sociali e sanitari, ma negli sport da combattimento la faccenda si fa un po’ più complicata: la violenza è spesso parte integrante delle regole stesse del gioco, dato che tali sport implicano il confronto fisico diretto come mezzo di competizione5.
Da un punto di vista psicologico, che cosa spinge gli atleti degli sport da combattimento a rendere il proprio corpo disponibile a infliggere o ad accogliere la violenza fisica? Ad accettare liberamente di esporsi a uno scontro che può risultare quanto meno in lesioni e danni psicologici?
Io non lo so, non riesco a empatizzare. Io ho paura di farmi male anche in chaturanga6 figuriamoci se mi presto a prendere pugni. Potrei dire che è tutta colpa del testosterone, ma direi una bugia: al massimo è colpa del patriarcato…7 La verità, per quanto faccia paura, è che la violenza sia in qualche modo parte della natura, quindi anche della natura umana, e per quanta distanza si possa - e, quando non si tratta di “violenza consensuale” come nel caso degli sport, si debba - prendere, può esercitare un richiamo molto forte nella psiche degli individui, per quanto civilizzati, quindi forse limitarsi a censurarla potrebbe essere controproducente rispetto ad altri meccanismi, come appunto quello di sublimazione.
Fatto sta che io ho sofferto moltissimo quando ho guardato Fabio combattere il suo primo incontro di Muay Thai da professionista, ma al contempo mi sono sentita molto orgogliosa: ha affrontato questa disciplina calandosi completamente nella cultura locale, allenandosi in una palestra gestita da un allenatore thai - no, a Koh Phangan non è per niente scontato essendo un’isola quasi totalmente gentrificata da nomadi digitali di altre nazioni - si è preparato a questo incontro con una dedizione e una forza davvero ammirevoli, onorando il suo maestro come solo il piccolo Goku onorava il suo nonnino e accettando una sfida di livello altissimo sia dal punto di vista fisico che mentale. E sì, ha fatto anche la Wai Khru! È stata un’esperienza forte e intensa che non dimenticheremo tanto facilmente, anche quando qualche livido se ne sarà andato e la sconfitta non brucerà più… D’altronde Fabio è un tifoso dello Spezia, possiamo dire tante cose ma non che non sappia perdere 😅❤️
Per noi sta per arrivare il momento di lasciare la Thailandia. Dove andremo dopo? Indovina!
Mentre le arti marziali possono essere praticate come sport da combattimento, non tutti gli sport da combattimento sono considerati arti marziali. “Arti marziali” e “sport da combattimento” non sono quindi esattamente sinonimi. Le arti marziali tradizionalmente includono un aspetto culturale, filosofico o spirituale e sono storicamente radicate in specifiche tradizioni culturali (Muay Thai, Karate, il Taekwondo e il Kung Fu, per esempio). Gli sport da combattimento, d'altra parte, tendono a concentrarsi maggiormente sull'aspetto competitivo e fisico del combattimento. Questi sport sono spesso regolamentati da organizzazioni sportive e possono essere praticati a livello amatoriale o professionistico con l'obiettivo di competizione. Esempi comuni includono il pugilato, la lotta e il mixed martial arts (MMA).
La partecipazione globale e nazionale agli sport da combattimento e alle arti marziali mostra tendenze interessanti. Negli Stati Uniti, discipline come MMA, boxe e jiu-jitsu brasiliano sono tra le più redditizie per le scuole di arti marziali, con MMA che guadagna in media $254.083 all'anno per palestra. Anche il Taekwondo e il Karate sono popolari, con ricavi significativi (Gymdesk). In termini di partecipazione globale, l'Australia ha circa 256.700 praticanti di arti marziali, mentre in Inghilterra circa 160.600 persone hanno praticato arti marziali miste tra il 2020 e il 2021 (Gymdesk). In Vietnam, il Taekwondo e il Karate sono estremamente popolari, con il 33% dei rispondenti che partecipano a queste attività (Gymdesk).
Ma anche Valerio Marchi in “Ultrà. Le sottoculture giovanili negli stadi d'Europa”.
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C’è ovviamente una differenza tra la “violenza regolamentata” in questi sport e la “violenza inaccettabile”: il rispetto delle regole stabilite e degli accordi di sicurezza. Che in alcuni sport, sono davvero minimi.
Una posizione dello yoga che comporta una flessione sui gomiti: enough! :D
Lo spiega benissimo
in Maschi del Futuro: “negli esseri umani, infatti, il legame tra aggressività e testosterone non è mai stato provato in modo conclusivo”.
Visto come sta andando il sondaggio, ci tengo a precisare che gli scacchi sono considerati uno sport dalla maggior parte delle organizzazioni internazionali, tra cui il Comitato Olimpico Internazionale (CIO), che ha riconosciuto la Federazione Internazionale degli Scacchi (FIDE) come una federazione sportiva internazionale nel 1999 :D
Io avevo la stessa tua percezione sulle arti marziali... finché non mi sono fidanzata con una campionessa di kickboxing. :-D Francamente, se qualcuno mi avesse detto che un giorno nella mia vita mi sarei trovata a fare il tifo mentre vedevo due che si prendevano a botte... avrei detto 'se vabbè'. E invece. Accompagnandola nelle gare, mi sono resa conto di due cose sorprendenti: 1) tutti i modi in cui le arti marziali ti ricordano che la nostra esistenza non prescinde dal nostro corpo, e che il nostro corpo può essere attaccato. Coltivare la prontezza nella risposta a un attacco vuol dire abitare gli spazi fisici che attraversiamo con un livello di presenza nettamente superiore alla media; 2) identificare una cornice entro cui la violenza può essere espressa, provare a limitare i danni, senza illudersi di poter rimuovere completamente i rischi, è fondamentale. Ma lo è in un modo diverso rispetto allo sfogatoio degli ultras, perché nelle arti marziali sfogare la violenza è un affare che riguarda i singoli che scelgono di mettersi in quella situazione. La responsabilità del singolo è sempre molto ben a fuoco, e i rischi ai quali sceglie di esporsi chi partecipa a un combattimento gli sono chiari. Tutto questo scompare nella cultura degli hooligans o degli ultras, e la barbarie di quella violenza di gruppo è - secondo me - infinitamente più svilente che praticare uno sport in cui ti può capitare di tornare a casa con un occhio nero.