Siamo abituati a pensare che le storie d’amore inizino con l’incontro tra i due protagonisti, ma non è sempre così. Ci sono storie d’amore che iniziano solo quando c’è un serio dubbio che gli innamorati possano davvero incontrarsi.
La messa in discussione della possibilità di un reale incontro con l’altro permea letteralmente tutte le relazioni tra i personaggi di Lost in Translation di Sophia Coppola e avvolge i due protagonisti di Your Name di Makoto Shinkai. Sono due storie molto diverse, ma entrambe raccontano gli inspiegabili errori di connessione che accadono tra le persone sotto una superficie apparentemente funzionante. Per questo sono ambientate a Tokyo. Non perché qualcosa si perde sempre nella traduzione della lingua, ma perché qualcosa si perde sempre nella relazione tra le persone.
Nonostante la convivenza pacifica di tecnologia iper avanzata e antichissime tradizioni di meditazione, Tokyo è perfetta per raccontare quell’interferenza esistenziale che proviamo quando ci sentiamo disconnessi - dagli altri, dalla realtà, da noi stessi. Perché?
Molte persone a Tokyo si sentono perse, sopraffatte, strane. La prima settimana che ho trascorso qui non capivo perché: è bellissima e funziona tutto benissimo. Non c’è neanche più davvero un tema di lingua, grazie alla tecnologia - anche se devo dire molto ammirevole l’ostinazione con cui i giapponesi non parlano neanche una parola di inglese. Con il passare dei giorni, però, una certa vaga e imprecisata fatica ha iniziato a farsi sentire, una fatica che non è solo fisica, ma composta da più elementi sottili e penetranti. Ho chiamato spontaneamente quella fatica “energia alienante”. È forse questo il cultural shock? E se sì, perché ce l’ho a Tokyo e non a Mumbai, a Bangkok, a Tangalle, a Chang Mai, a Siem Reap?
Il Silenzio di Tokyo, e quello che contiene
L'area delle 23 circoscrizioni speciali di Tokyo, note come Tokyo Special Wards, che costituisce il nucleo storico e amministrativo della città, oggi ha un’estensione di 621 km² e una popolazione totale di circa 9.73 milioni di persone. 15.503 abitanti per chilometro quadrato. Napoli, la città italiana più densamente popolata con i suoi più di 8.200 abitanti per chilometro quadrato, ne ha circa la metà1. Eppure, la prima cosa che mi ha stranito di Tokyo è stata il silenzio. Com’è possibile che una città così affollata e dinamica riesca a essere così silenziosa?
Quella giapponese è una società fortemente collettivista: gli individui sono incoraggiati a mantenere l'armonia sociale e a evitare conflitti. Il concetto di "giri" (義理), o obbligo sociale, e quelli di "menboku" (面目) o "kao" (顔), che si riferiscono al mantenimento della reputazione e dell'onore, sono valori fondamentali che si riflettono nel comportamento quotidiano, dove la cortesia e il rispetto per gli altri sono fondamentali. I giapponesi sono anche famosi per rispettare pedissequamente le regole e le gerarchie - anche grazie all’influenza antica, duratura e profonda del confucianesimo. Allo stesso tempo, Tokyo non è immune alle moderne tendenze individualiste: secondo le statistiche del Ministero degli Affari Interni e delle Comunicazioni del Giappone, la percentuale di nuclei familiari composti da una sola persona è in costante aumento.
Il risultato è che il mantenimento dell'ordine pubblico è una priorità assoluta di tutti, nessuno parla al telefono, pochissime persone parlano tra di loro a voce udibile in pubblico e i locali sono sempre più ottimizzati per ospiti singoli… E silenziosi.
Ci sono poi leggi sull’inquinamento acustico molto rigorose, che vengono applicate severamente a diversi settori, come i trasporti e l’edilizia - i mezzi pubblici di Tokyo sono noti per essere estremamente efficienti e silenziosi, ed è in corso un aumento significativo di auto elettriche. Senza il rumore dei motori si riduce drasticamente il tappeto sonoro tipico del traffico urbano. Inutile dire che i giapponesi, diversamente dagli indiani, non suonano il clacson.
Tokyo è infine molto ricca di parchi e aree verdi che non solo migliorano la qualità dell'aria, ma fanno anche da barriere naturali al rumore, assorbendolo e smorzandolo.
Insomma: It's oh… So… Quiet… Shhhh, shhhh… You're all alone…
Gigantesco e Minuscolo
Quelli che ingenuamente chiamiamo “quartieri di Tokyo” sono a loro volta enormi circoscrizioni che formano una costellazione di città diverse. Noi viviamo a Shinjuko, la dodicesimo più popolata: 349.385 abitanti. Shinjuko è famosa per la storica Shinjuku Station, una delle stazioni ferroviarie più trafficate del mondo, con il suo intenso flusso di pendolari e la sua complessa rete di binari e uscite; per i grattacieli - non scontati a Tokyo, il cui skyline è relativamente basso rispetto ad altre metropoli a causa delle comprensibilmente rigide norme antisismiche giapponesi; per le aree dello shopping e del divertimento, come Takashimaya Times Square e Kabukicho, il quartiere “a luci rosse”.
Spostarsi da un quartiere all’altro può sembrare facile con i mezzi e piacevole a piedi, ma presto ti accorgi di quante ore e chilometri macini al giorno, anche per svolgere relativamente “poche” attività. Poi torni a casa e… Ti ritrovi in un mondo in miniatura.
Io e Fabio viviamo in un minuscolo appartamento che chiamo “il van”, circondato da strettissime viuzze con piccole botteghe artigianali (il barbiere, il calzolaio, la caffetteria vecchio stile, il ramen bar…) gestite da microscopici vecchietti che sembrano e forse sono centenari.
Più la città si ingigantisce, più gli spazi abitativi delle persone si miniaturizzano. Non sto dicendo niente di nuovo, ma qui il fenomeno è talmente evidente che sembra di stare in un quadro di Escher, quasi che la città sia sotto un incantesimo (ciao Miyazaki!). È davvero alienante passare da una dimensione all’altra. Sarà per questo che c’è chi non torna più a casa (i salarymen2) e c’è chi resta chiuso dentro (gli hikikomori3)?
Far East e Social Jet Leg
Tokyo si trova a una latitudine di circa 35°N, il che significa che la lunghezza del giorno varia in modo significativo nel corso dell'anno, fenomeno che in Italia conosciamo bene. Ma il Giappone è anche Estremo Oriente, quindi tendenzialmente il Sole sorge prima. A maggio, l’alba è alle 4:30 e il tramonto è alle 18:30 circa. Il risultato è che il Sole è già bello alto da tre ore se ti svegli alle 7:30. Questo per me significa solo una cosa: Social Jet Lag.
Il social jet lag descrive una condizione in cui c'è un disallineamento tra il nostro ritmo circadiano e gli orari imposti dalla convivenza sociale. È un fenomeno simile al jet lag che si sperimenta quando si viaggia attraverso diversi fusi orari, ma la confusione nell’alternanza sonno-veglia è causata dall’asicronia con le attività quotidiane. Un esempio classico è quello delle persone che hanno un ritmo circadiano che favorisce la produttività nelle ore notturne, ma devono svegliarsi presto per andare a lavoro o a scuola. Le conseguenze del social jet lag possono essere sonnolenza diurna, umore depresso, stress e persino un rischio maggiore di malattie croniche come il diabete e le malattie cardiovascolari4.
Il social jet lag si verifica più frequentemente in società con orari di lavoro lunghi e rigidi, che spesso ignorano i ritmi naturali del corpo umano. A lungo termine, vivere con un significativo social jet lag può ridurre la qualità della vita e la salute generale di un individuo.
C’è chi non ha o non si dà il tempo di ascoltare il corpo quando atterra in un posto nuovo e si butta subito sulla lista delle cose da fare. Per me è il contrario: non ho tempo di fare tutte quelle cose, senza prima sincronizzare il corpo. Ecco, l’allineamento con la natura che avevo trovato a Koh Phangan qui è scomparso di nuovo e per me sta diventando sempre più importante.
Il senso di alienazione dal proprio corpo è una cosa che ritorna molto nella cultura giapponese: nel già citato Your Name la sensazione di non essere nel posto giusto - il paesino immerso nella natura e nelle tradizioni - si ribalta nell’esperienza di vivere dentro il corpo di un altro, quando il desiderio di Mitsuha di rinascere come un bel ragazzo di Tokyo si avvera. Nei manga e negli anime giapponesi si è sempre fatto un grande lavoro sui corpi e sulla loro trasformazione, ma non è chiaro se questa libertà di immaginazione metta davvero un germe rivoluzionario nella società o ne rinforzi i tratti conservatori nella realtà. Se ne parla in questa bella intervista di
a Giorgia Sallusti, curatrice del volume Genere e Giappone.Una fuga di prigione
Se a questi elementi aggiungiamo il coesistere di antichissime tradizioni molto legate alla natura5 con un progresso economico, tecnologico e urbanistico super accelerato, la lunga storia di terremoti devastanti e il trauma collettivo dei bombardamenti atomici (che nella cultura popolare ha portato alla presenza ubiqua di riferimenti catastrofici) e la paradossale (?) fiducia nel futuro e nella scienza derivata dalla loro incredibile ripresa dopo questi eventi, tutte queste cose che convivono insieme, in sintesi, ti spaccano il cervello.
Io sono convinta che queste cose si sentano, anche quando non sono chiaramente decifrabili, e possono essere opprimenti a livello sottile. È pure vero che queste cose non appartengono solo a Tokyo, sono tratti fondamentali della nostra coscienza collettiva. Ma Tokyo le condensa in un modo tutto suo, offrendoci uno specchio magico che amplifica e nasconde per assonanze e contrasti tutte le idiosincrasie della vita occidentale urbana.
Questo spaesamento, questo senso di essere nel posto sbagliato, è quello che mi ha spinto a viaggiare, ben consapevole che lasciare Milano non voleva dire solo lasciare un città, ma un intero sistema di valori. Per questo il viaggio non è solo una fuga, ma innanzitutto una ricerca. Che da Tokyo dovrà continuare.
Bob: Can you keep a secret? I'm trying to organize a prison break. I'm looking for, like, an accomplice. We have to first get out of this bar, then the hotel, then the city, and then the country. Are you in or you out?
Charlotte: I'm in. I'll go pack my stuff.
Bob: I hope that you've had enough to drink. It's going to take courage6.
Questi numeri per contestualizzare una città che di certo non sta dentro il perimetro del mio vissuto e specificare che io, come sempre, parlo della mia esperienza - puoi sempre raccontarmi la tua rispondendo a questa email o commentando su Substack.
I salarymen sono una figura emblematica della società giapponese: impiegati aziendali in giacca e cravatta che sacrificano la propria vita al lavoro. Sebbene siano considerati il pilastro del successo economico del Giappone postbellico, sono anche il simbolo di una cultura tossica del lavoro, che impone uno stile di vita con un alto livello di stress, assenza di vita privata e problemi di salute legati a un numero eccessivo ore di lavoro. È molto comune vederli ancora in giacca e cravatta ubriacarsi durante i nomikai, serate tra colleghi dopo l'ufficio a cui ci si aspetta che partecipino, pena l’esclusione dalla scalata sociale. In giapponese, i casi di morte dei salarymen dovuti a patologie derivanti da un eccesso di ore lavorative ha un nome specifico: karoshi. Suicidi inclusi.
Gli hikikomori sono persone, prevalentemente giovani, che scelgono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, spesso anni, vivendo in completo isolamento nelle proprie stanze. Questo fenomeno è particolarmente diffuso in Giappone e coinvolge sia ragazzi che ragazze, anche se è più comune tra i maschi adolescenti e giovani adulti.
Fonte: nature reviews
Lo shintoismo, la religione nativa del Giappone, è basato su una forma di animismo che vede la natura come abitata da kami, divinità o spiriti, che risiedono in elementi naturali come alberi, rocce, fiumi e montagne, conferendo a questi elementi un carattere sacro
Bob: "Sai mantenere un segreto? Sto cercando di organizzare un'evasione. Cerco, tipo, un complice. Dobbiamo prima uscire da questo bar, poi dall'hotel, poi dalla città e poi dal paese. Ci stai o no?" Charlotte: "Ci sto. Vado a fare le valigie." Bob: "Spero che tu abbia bevuto abbastanza. Ci vorrà coraggio." (Lost in Translation, 2003)
Per me Tokyo è una città molto importante. È stata la prima città nuova dove sono andata, da sola, quando abitavo a Bangkok e uscivo da una separazione che mi aveva lasciata esanime, e soprattutto, malinconica e riflessiva.
A Bangkok c'è poco spazio, per il silenzio, la riflessione, l'autoascolto. È una città che si ha i suoi lati più oscuri, ma di fatto è animata da una cultura che lascia poco spazio alla malinconia.
E penso che dovrei proprio scrivere un numero, sul disallineamento dell'essere triste quando vivi ai Tropici :)
A Tokyo ci sono andata da sola in un momento in cui vivevo tra vita, rumore e colori, e invece avevo bisogno di silenzio, di fiori delicati di primavera e di una sensazione di sicurezza che in quel momento specifico Bangkok non sapeva darmi.
E niente, dopo quella volta a Tokyo ci sono tornata altre tre volte, sempre da sola. Credo non ci siano altre città che mi abbiano fatto sentire più "portata", più tranquilla, di Tokyo. Sono passati dieci anni, quasi, dal primo giro, e poco meno dai secondi e terzi. Sarebbe bello vedere come mi risuonerebbe ora — perché oltre che le città, siamo anche noi che cambiamo.
Grazie di questo post. Che bello seguirti, Daria
Il mio primo contatto con il Giappone l'ho avuto atterrando a Osaka dalla Cina (a Tokyo ci sono andata una decina di giorni dopo e mi ero già ambientata). È stato... terribile. Le metropoli cinesi sono un posto davvero difficile da vivere, ma ti fai le ossa da viaggiatore come in nessun altro posto. C'è sempre gente, c'è sempre rumore, di notte passano macchinine che fanno suoni assurdi, di giorno è zeppo di megafoni di propaganda, anche nei parchi, la gente urla, ti spinge, le macchine provano a buttarti sotto, le commesse battono le mani per attirarti nei loro negozi con la musica a palla, c'è odore di fritto e di chou doufu (tofu puzzolente) ovunque, la gente ti starnutisce in faccia in metro e scatarrano di continuo (non sembra, ma amo la Cina!). Poi sono arrivata in Giappone e questa cosa mi ha colpito molto:
in Giappone mi sembrava di guardare un film. Succedevano cose che io vedevo da fuori, non mi coinvolgevano;
in Cina invece ci stai con tutti e cinque i sensi. A cui si aggiunge uno squilibrio mentale che però ti fa immergere totalmente, nel bene e nel male, in quel magnifico Paese.
Devo anche dire che dopo una decina di giorni, mi sono iniziati a piacere il silenzio, l'ordine e la pulizia del Giappone ahahhaha