Dare le dimissioni e partire: colpo di testa o trend in crescita?
Se ti accorgi che non stai andando da nessuna parte, forse è ora di cambiare strada
Innamorarsi a Milano può essere molto bello, ma che cosa succede quando inizi a fantasticare di come potrebbe essere un futuro insieme?
L’immaginazione non ci manca, e neanche la voglia di goderci la vita, soprattutto dopo i disagi della pandemia, le tensioni geopolitiche, l’incertezza economica e l’emergenza climatica, con tutte le conseguenze che questi fenomeni hanno anche sulla salute mentale.
Di immaginazione c’è ne bisogno: metà degli italiani mette da parte meno di 100€ al mese1 , più di un italiano su tre respira l’aria più inquinata di Europa2, solo l’11% dei lavoratori dichiara di stare bene. Il 63% delle persone che lavorano da remoto cambierebbe lavoro se non ne avesse la possibilità, ma solo il 25% delle aziende è disposto a concederla dopo il Covid3.
Di fronte a questi numeri ti viene voglia di confrontare il costo della vita del posto dove vivi con quello di mete a caso che potrebbero ispirarti. Così, per gioco, sullo spunto di qualche amico, proviamo a confrontare Milano e Melbourne:
Lo senti, il pugno nello stomaco? Fa male, fa molto male.
Non è un caso che il numero dei laureati pronti a emigrare sia salito dal 38% nel 2006 al 45,3% nel 2023 a causa dei salari troppo bassi: gli italiani laureati che lavorano all’estero guadagnano il 41,8% in più di chi lavora in Italia4 — ma il governo disinveste pure sul rientro dei cervelli.
Nel 2022 le nascite in Italia sono scese, per la prima volta dall'unità d'Italia, sotto la soglia delle 400mila unità, attestandosi a 393mila5. Questo dato ha implicazioni dirette sul sistema pensionistico: se tutto va bene i millennials andranno in pensione a 71 anni - potrà andare in pensione a 64 anni solo chi ha avrà una pensione da 1.659€, ma l'Istat indica che, tra il 2013 e il 2022, la crescita totale delle retribuzioni lorde annue per dipendente in Italia è stata del 12%, circa la metà della media europea, ma il potere di acquisto delle retribuzioni, negli stessi anni, è addirittura sceso del 2% (mentre è cresciuto del 2,5% negli altri paesi)6. Con il nostro tasso di natalità, chi le pagherà quelle pensioni?7
“Studia e troverai il lavoro dei sogni, lavora e comprerai casa, smetti di lavorare e avrai una buona pensione”… Come ha dimostrato numeri alla mano Beniamino Pagliaro8, sono bugie, anche se chi le ha dette ai nati dopo gli anni Ottanta aveva buone intenzioni.
Segue video estratto da “Figli” (grazie agli amici di Cocooners): il discorso su Sanremo sarà invecchiato male, ma secondo Eurostat l’Italia registra l’indice di dipendenza dagli anziani più alto d’Europa, con una percentuale del 37,5%.
Nel 2019 ascoltavo “Milano, Europa”, podcast di Francesco Costa, con grande entusiasmo. Nel quinto episodio, Costa correla due luoghi comuni sulla città: “A Milano c’è lavoro” e “A Milano si pensa solo al lavoro”, sostenendo che la storia del lavoro e dell’economia milanese sia una storia di trasformazioni e immigrazioni, che hanno permesso alla città di mantenere il suo primato a fronte dei cambiamenti epocali attraversati dall’Italia e dal mondo negli ultimi settant’anni. In effetti, nel 2019 come oggi, anche se sembrano passati due secoli, Milano produce il 10% del PIL italiano e il lavoro continua a essere la singola attività attorno alla quale, in qualche modo, gira tutto.
“Il lavoro a Milano è una religione. Scandisce attività, abitudini, orari, vita sociale (…) Si lavora senza guardare l’orologio, per cultura.”
Il resto è volatile e passeggero, evapora facilmente. Se a Milano non ci sei nato (come la maggioranza dei residenti), il lavoro è il mezzo attraverso cui ti puoi integrare. Io, devo dire, mi sono integrata benissimo. Però…
C’è però anche un’altra faccia della medaglia in questo potere trasformativo di Milano guidato dalla cultura del lavoro: Carlo Capra, ricercatore di Asso Lombarda, intervistato da Costa nello stesso podcast, osserva come l’allargamento della base dei consumatori internazionali di beni, esperienze e servizi di alto livello, ponga anche delle questioni per gli abitanti, perché “se i servizi si orientano verso un certo tipo di target per l’esterno, la domanda interna locale rischia di essere tagliata fuori”.
Insomma, Milano è sempre più una città di lusso dove ti puoi permettere di vivere, da “immigrato italiano”, solo se lavori moltissimo, se la tua vita ruota attorno al lavoro, e se per piacere non ti lamenti, che comunque è un privilegio poter fare carriera qui.
Dalle elaborazioni dei dati Istat sull’inflazione, risulta che nell’ultimo anno i costi per la casa a Milano sono cresciuti più del doppio della media nazionale (+4,6% contro il +2,1%), così come quelli per le spese sanitarie (+3% contro +1,6%). Risultano superiori alla media italiana anche i rincari per le attività culturali e ricreative (+4,5% contro il +3,7% a livello nazionale) e per i servizi ricettivi e di ristorazione (+8,9% contro il +6,8%).
Secondo un sondaggio condotto da Adesso! e pubblicato a ottobre 2023, a Milano il 62% degli under 40 spende per vivere più di quanto guadagna [read it again]. Se sei donna, o madre, è sempre peggio9.
Se è difficile immaginare un futuro senza la sicurezza di un lavoro stabile, che cosa succede quando diventa difficile immaginare un futuro anche con il privilegio di un lavoro stabile?
Lavorare tantissimo e potersi permettere molto poco: funziona solo se davvero per te il lavoro è tutto.
Se il lavoro è tutto
Lo chiamiamo “employee engagement”, e non ci sarebbe niente di male a promuoverlo in aggiunta e sulla base di politiche retributive eque, in assenza delle quali invece si riduce a un processo che tenta di ridurre l’identità delle persone al loro ruolo produttivo (e dico ruolo, non funzione, perché c’è dentro anche un tema di status, pensiamo solo al mercato dei job title), con l’obiettivo di sostituire al giusto compenso economico un generico senso di soddisfazione lavorativa. Non puoi pagare i tuoi dipendenti quanto vorresti? Fagli i complimenti! Literally.
Come siamo arrivati fino a qui? Secondo quanto sostiene Nikki Mandell in “The Corporation as Family”, un primo passo è stato l’introduzione del welfare aziendale come sistema per rifondare le aziende moderne, intorno alla metà degli anni Venti. Quel sistema è stato plasmato sul modello della famiglia vittoriana, con i datori di lavoro nel ruolo del padre di famiglia, e i dipendenti nel ruolo subordinato di figli. Nonostante la successiva introduzione delle risorse umane e dei sindacati, questa dinamica risuona ancora negli uffici milanesi quando devi giustificarti perché esci alle 18: “Mezza giornata oggi?”.
Se “il lavoro è tutto” in un contesto aziendale ancora intriso di dinamiche di potere e controllo, se smette di essere un mezzo e diventa un fine, ci rendiamo conto di che cosa stiamo sacrificando? Come minimo, il burnout è dietro l’angolo. Lo spiega bene Francesca Coin10:
Quando i dipendenti lavorano con questa mentalità, è solo questione di tempo prima che le prestazioni e la produttività calino a causa del burnout […]. Se [il problema] non viene affrontato, i datori di lavoro rischiano di favorire un ambiente in cui il burnout è la norma e che, in ultima analisi, si ripercuote sui profitti attraverso la fuga del personale e la perdita di produttività. […]
In generale, il problema della descrizione di un luogo di lavoro come una famiglia, un matrimonio, un hobby o una passione è che questa lettura tende a falcidiare tutte le regole che normano il rapporto lavorativo. […]
L’amore per il lavoro sposta “la linea di demarcazione tra ciò che pensiamo debba essere fatto per amore e ciò che pensiamo debba essere fatto per denaro”, scriveva Sarah Jaffe11.
Il lavoro non è sufficiente come fonte di reddito perché ti pagano troppo poco, ma non è sufficiente neanche come fonte di significato, se lavori troppo in un contesto senza reciprocità di scambio, in cui - proprio perché ami il tuo lavoro - non lavori mai abbastanza: la ricerca della soddisfazione lavorativa ti porta in un circolo di assuefazione simile a quello che si crea assumendo sostanze che danno dipendenza.
Il termine workaholism è stato usato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1971 da Wallace E. Oates in “Confessions of workaholics: the facts about work addiction”. Se ne possono dare molte definizioni, ma in sintesi è un’incapacità di regolare le proprie abitudini di lavoro e una sproporzionata indulgenza nei confronti degli impegni di lavoro fino ad arrivare a una (quasi totale) esclusione delle altre principali attività della vita. Nel dimostrare il proprio amore per il lavoro, è facile assumersi sempre maggiori incarichi e responsabilità anche quando mancano le energie. Ma l’aumento del carico in assenza di energia rischia di generare situazioni in cui non ci si sente mai abbastanza: mai abbastanza capaci, mai abbastanza disponibili. Ci sembra che l’unico modo per contrastare questa insufficienza sia lavorare ancora di più. Così si finisce in burnout: spossatezza, aumento dell’irritabilità, con i colleghi e/o nella vita privata, calo di concentrazione, magari poca attenzione all’alimentazione e sonno disturbato.
Magari associamo a questa dipendenza altre dipendenze, dallo smartphone o dai social network, dall’alcol o dal sesso occasionale. Si trascurano le relazioni importanti, le amicizie diventano PR. Ci isoliamo. Il consumo medio di psicofarmaci in Lombardia cresce più della media nazionale12.
Questo quadro tragico non riguarda tutti, sicuramente c’è chi nel lavoro ha trovato la sua strada ed è felice così, ma molte più persone di quanto crediamo stanno male e non lo sanno, o non sono disposti ad ammetterlo, o non sono autorizzati ad ammetterlo.
A Milano se fai intuire di essere workaholic vieni premiato nelle selezioni, se fai notare che non sei disposto a tutto “si vede che non hai voglia di fare un cazzo” e se dici che sei in burnout sei un debole che non ha saputo reggere la pressione, non sei all’altezza del ruolo. Eppure lo stress e l’ansia non risparmiano neanche i dirigenti: nel 2023 c’è stato un aumento del 47% del numero di amministratori delegati che hanno lasciato le loro posizioni13. Le cause sono molteplici14, ma fa capolino il senso di solitudine che deriva da un’ideale di leadership retrogrado, legato alla cronicizzazione del paradigma “Command and Control”.
Il problema con il burnout è che si pensa che il burnout sia il problema, quando è il sintomo di un problema, e se gestirlo significa mettere a tacere le urla e il fastidio che il nostro corpo lancia contro il nostro stile di vita tramite poche ferie e tante sostanze, che cosa succede quando invece il corpo lo ascoltiamo?15
La risoluzione di questa crisi generazionale è lasciata alle coscienze individuali, visto che non c’è nessuna forma di organizzazione che dia dignità politica a questi bisogni.
Per quanto mi riguarda, in questo momento io sento forte e chiaro che il mio personale modo di reagire a quello che è un sistema complessivo, e non una singola azienda, è andare via. Proprio via. Davvero sembra un colpo di testa?
Partire, tra spinta e attrazione
Fondazione Migrantes ha pubblicato un report che fotografa l’emigrazione italiana: oltre 5,8 milioni di persone, il 9,8% dei cittadini italiani, risiedono all’estero (calcolando solo quelli iscritte all’AIRE, il registro degli italiani all’estero).
Dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cresciuta dell’87% in generale, del 94,8% quella femminile, del 75,4% quella dei minori e del 44,6% quella per la sola motivazione “espatrio”. È un trend che, insieme ad altri, sta cambiando la faccia del Paese:
Si era soliti affermare che l’Italia da paese di emigrazione si è trasformato negli anni in paese di immigrazione: questa frase non è mai stata vera e, a maggior ragione, non lo è adesso perché smentita dai dati e dai fatti. Dall’Italia non si è mai smesso di partire e negli ultimi difficili anni di limitazione negli spostamenti a causa della pandemia, di recessione economica e sociale, di permanenza di una legge nazionale per l’immigrazione sorda alle necessità del tessuto lavorativo e sociodemografico italiano, la comunità dei cittadini italiani ufficialmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) ha superato la popolazione di stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale. Una Italia interculturale in cui l’8,8% dei cittadini regolarmente residenti sono stranieri (in valore assoluto quasi 5,2 milioni), mentre il 9,8% dei cittadini italiani risiedono all’estero (oltre 5,8 milioni).
Fuggire, sì ma dove: Altrove è una risposta molto romantica, ma la spinta centrifuga non è sufficiente. In realtà non volevamo che il nostro viaggio fosse una fuga o una forma di evasione. Decidere di andarsene significa prendersi responsabilità enormi, nei confronti di se stessi, degli altri, dei luoghi che si lasciano e di quelli che si raggiungono.
Senza dimenticare l’enorme privilegio di avere un passaporto italiano, uno dei più forti al mondo, e quello di poter evitare le zone di guerra e di contagio (almeno entro certi limiti), scegliere una destinazione comporta uno sguardo su se stessi, un punto di vista sul mondo, e un’idea di che cosa ci manca per essere felici. Tre cose difficilissime.
Se “Milano = Lavoro”, dove ci spostiamo per ottenere cosa?
Possiamo enfatizzare o ammorbidire un particolare aspetto della nostra personalità grazie ai luoghi che visitiamo o che decidiamo di abitare? Io penso di sì. Se non vogliamo dire “luoghi”, possiamo almeno riferirci alle narrazioni condivise sulle culture locali di quei luoghi. Condivise da chi? Ecco, la negoziazione sulla condivisione di significato di quelle narrazioni forse è il senso stesso del viaggio.
È come se ogni destinazione avesse un propria carattere con cui i viaggiatori possono trovarsi a interagire abitandola, e da questa relazione io-luogo, più o meno frutto di proiezioni reciproche, ne potessero uscire cambiati, come accade nelle relazioni tra persone.
La destinazione da cui ci sentiamo attratti riflette i nostri bisogni latenti e fa emergere ciò di cui sentiamo la mancanza, o ciò che non ha ancora trovato il giusto spazio nella nostra vita. Viaggiare può riequilibrare carenze o eccessi specifici della nostra psiche, o esasperare definitivamente determinati squilibri. Cerchiamo, attraverso il viaggio, non solo di vedere posti nuovi, ma anche e soprattutto di scoprire chi siamo veramente, o diventare quello che vorremmo essere. In questo senso, scegliere una destinazione è davvero come seguire il proprio destino, anche nel senso di “vocazione”.
Tutto bellissimo, ma questo approccio romantico si porta dietro rischi enormi. Su tutti, per me: eccesso di idealizzazione, individualismo e orientalismo. Di questi temi non riesco a liberarmi, ho bisogno di trovare un’etica del viaggiatore che eviti gli eccessi, sia quelli del liberismo che quelli del proibizionismo. Ci torneremo presto.
Fonte: Dynata per Revolut
Indagine di The Guardian su dati Expanse Project
Fonte: Flexijobs, Raical HR e PHYD
Elaborazione Il Sole 24 Ore
Sulla correlazione tra tasso di natalità e pensioni, Silvia Boccardi per Will
Beniamino Pagliaro, Boomers contro millennials. 7 bugie sul futuro e come iniziare a cambiare, HarperCollins 2023
Le donne italiane tra i 15 e i 72 anni con un'occupazione nel 2022 è pari al 48,2%. La media dell’Ue, invece, è del 59,6%: un divario di oltre 11 punti percentuali (SkyTG24). Nel 2022 quasi 45mila madri hanno dovuto lasciare la loro occupazione. Il motivo, per il 63%, è la difficoltà di conciliare la cura dei piccoli con la vita aziendale (La Stampa); Pisa 2022: crollo verticale della preparazione degli studenti nel mondo. In Italia divario più alto al mondo tra sessi in matematica (Il Sole 24 Ore)
Francesca Coin, Le grandi dimissioni, Einaudi 2023
Sarah Jaffe, Work Won't Love You Back, Hurst Publichers, 2022
Fonte: Osservasalute
Anche se ovviamente: “Companies are most often not giving reasons for their CEOs’ departures”, fonte Challenger, Gray & Christmas, 2023
Io personalmente devo ringraziare lo yoga, oltre alla psicoterapia, ci tornerò.
"Milano è sempre più una città di lusso dove ti puoi permettere di vivere, da “immigrato italiano”, solo se lavori moltissimo, se la tua vita ruota attorno al lavoro, e se per piacere non ti lamenti"
questo vale anche per chi non è immigrato ma pure per chi ci nasce e non viene dal privilegio economico e/o sociale e/o culturale, per chi ci nasce e non fa il CEO ma a vent'anni trova solo lavori precari e no, non vuole vivere a casa con la mamma fino a 40 anni. Era già così prima dell'Expo, prima della hipsterizzazione della città e prima di Sala, ma pure prima di Pisapia.
C'è una specie di cancellazione nel discorso pubblico di chi nasce a Milano e non viene da un'estrazione milanese di generazioni, con le case ereditate che ne conseguono.
I figli di questa Milano qui, chi è cresciuto fuori dalla cerchia della 90, emigra tanto e non da ieri (un sacco della gente della mia età del mio quartiere periferico vive in giro per il mondo da 15 anni almeno) perché altrove in Italia non c'è percezione di molte alternative valide, se hai già tentato Milano di default dove tutti vanno, perché lì ti sei trovato a nascere e studiare.
E infatti, la Lombardia è spesso tra le regioni che più contribuisce ai numeri dell'AIRE, non da oggi.
Scusa il pippone ma è un tema che mi sta a cuore, perché come persona cresciuta in periferia a Milano la narrazione di Milano come difficile solo per chi ci emigra è... Incompleta. È difficile anche per chi ci nasce e non è ricco, e nemmeno ilsoleeilnostromare idealizzati dell'infanzia X possiamo rimpiangere 😂
un saluto da Kuala Lumpur 🥭adesso mi guardo altri tuoi post. Substack, l'unica app dove l'algoritmo ti fa dire, ah dai? (Se non finisci nei posti sbagliati)
Ha risuonato molto questo pezzo, in modo particolare perché da originaria della Brianza, da sempre gravitante su Milano, mi sono trasferita a Roma, in una dimensione diversa effettivamente, ma che dopo il covid si è guastata, almeno per me. Di sicuro per l'overtourism che da settembre 2022 è insopportabile, ma probabilmente anche perché quello che mi ha portato via da Milano non si è risolto del tutto approdando a Roma. Anche se non tornerei a Milano, proprio no.