Il bagaglio emotivo e la non neutralità dello spazio
Abbiamo salutato tutti e siamo arrivati a Mumbai
È successo veramente, io e Fabio siamo partiti!
Quale sia stato il conflitto che ci ha spinti a una rottura della continuità così forte ho provato a raccontarlo nella newsletter precedente, cercando di ragionare su due dimensioni della nostra scelta, quella di fuga e quella di esplorazione, consapevoli che decidere di andarsene significa prendersi responsabilità enormi, nei confronti di se stessi, degli altri, dei luoghi che si lasciano e di quelli che si raggiungono.
La responsabilità nei confronti delle persone che abbiamo lasciato, in particolare, ha fatto sentire i suoi risvolti emotivi più profondi durante l’ultima sera che abbiamo trascorso a Milano con i nostri amici: grazie di nuovo a tutti quelli che sono stati con noi, ognuno a suo modo e con le sue personalissime reazioni alla nostra scelta. Per noi avere un momento di congedo condiviso è stato un rituale importante per celebrare il varco di questa piccola grande soglia.
La mattina della partenza non ero lucidissima: uscire dalla porta di quello che è stato il mio rifugio - e a volte anche la mia prigione - negli ultimi undici anni, con uno zaino in spalla e il mazzo di chiavi dentro casa, mi ha appannato un po’ la mente. Le chiavi e lo zaino sono simboli potenti perché toccano dei bisogni incondizionati, come quello di sicurezza, stabilità e protezione, e diventa facile proiettare sul bagaglio tutta una serie di esigenze che sfociano in scelte apparentemente folli, come partire per l’India del Sud con un guscio in Gore-Tex e un 100 grammi, che non si sa mai.
A questo proposito, ho avuto un’interessantissima conversazione con Federico1, amico ed (ex!) collega, che ringrazio per aver condiviso con me una sua ricerca sulla conquista del Polo Sud.
Siamo a inizio Novecento, e due esploratori si contendono il primato: Robert Falcon Scot, ufficiale della marina del Regno Unito e piena espressione dell’imperialismo britannico vittoriano, e Roald Amundsen, un ex studente di medicina norvegese che aveva frequentato per diversi mesi una famiglia di Inuit, la popolazione artica incontrata durante la spedizione che gli permise di attraversare il passaggio a Nord-Ovest e circumnavigare il continente americano da nord.
Partirono entrambi alla volta del Polo nel 1911, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. La spedizione di Scott finì in tragedia, mentre quella di Amundsen fu un trionfo. Perché?
Federico ha analizzato i diversi approcci dei due esploratori e ha così concluso:
A questo punto potreste pensare che il successo di Amundsen sia da ascrivere semplicemente ad una migliore capacità di pianificazione. In realtà si tratta di qualcosa di più profondo. Tutte le scelte di Scott sono espressione di una cultura che vede il progresso come l’avanzare della tecnologia, e la tecnologia come un fenomeno governato da specialisti. Per Amundsen invece la competenza tecnologica non deve rimanere appannaggio di pochi, ma essere parte della cultura condivisa. Per Scott un ambiente ostile va percorso all’interno di una bolla in cui riprodurre il più possibile l’ambiente di provenienza. Per Amundsen non esistono ambienti ostili: gli Inuit gli hanno insegnato che ci sono solo ambienti di cui imparare a far parte. In altri termini, con Amundsen assistiamo alla prima ridefinizione del concetto di progresso come la capacità stessa di una cultura di evolversi diventando consapevolmente altro da sé, cioè di contaminarsi in modo selettivo. La parola d’ordine è resilienza: la facoltà di adattare il proprio sistema a nuovi elementi, senza per questo mandarlo in frantumi. Amundsen diventa Inuit ed entra a far parte consapevolmente dell’ambiente polare, rimanendo se stesso.
Con questa riflessione in testa sarei potuta partire con un bagaglio molto più piccolo rispetto alla bolla di 70 litri che mi sono creata nei giorni precedenti la partenza. Eppure, fino a un attimo prima di salutare tutti e di chiudere quella porta, ho fatto molta fatica a capire che cosa mi serviva davvero e che cosa no. Una volta usciti a passo svelto, passando a piedi davanti al famoso balcone fiorito di via Civerchio in Isola - per la prima volta mutilato dalle impalcature per la ristrutturazione della facciata - ho iniziato a sentirmi in modo diverso, con troppo peso sulle spalle, ma una nuova leggerezza dentro. Sono diventata un piccolo Olaf Bjaaland, il campione di sci che Amundsen decise di portare con sé durante la spedizione artica e che, al momento del bisogno, riuscì a ridurre il peso delle slitte di ben 43 chili senza comprometterne l’efficienza. Io mi sono lasciata alle spalle 43 chili di bagaglio emotivo.
Nell’audiolibro “Soglie”, che ho ascoltato più volte nei mesi precedenti la partenza, la voce di Marina Pierri2 mi ha ripetuto:
Lo spazio non è neutro. Non ha la stessa valenza per tutte le persone, né a volte le stesse caratteristiche, perché le nostre identità sono molteplici, i nostri corpi differenti e spesso le nostre esperienze umane differiscono in maniera consistente.
Vorrei che fosse la premessa di ogni tappa di questo racconto di viaggio, in cui proverò a dare senso a quello che vedo senza mai dimenticare la parzialità del mio punto di vista e l’unicità della relazione che si verrà a creare tra me e i luoghi, le culture e le persone che conoscerò. Quello che scrivo è frutto della mia esperienza personale, per quanto cercherò di arricchirla e contestualizzarla con dati ufficiali.
“Non esistono ambienti ostili” e “lo spazio non è neutro”: due concetti che sono diventati il mantra con cui sono atterrata a Mumbai.
Big City, Small Life
Verdura e asfalto, mucche pacifiche e clacson assordanti, grattacieli fatiscenti trafitti dal verde e baracche grigie puntellate di tessuti coloratissimi. Tantissime persone che vivono in strada e pochissime donne in giro. Sembra quasi non esserci turismo a Mumbai, almeno non turismo internazionale3. Te ne accorgi se osservi le persone, ma te ne accorgi soprattutto per come loro osservano te: decine e decine di occhi profondissimi ti si incollano addosso, sguardi che non cedono di un secondo quando li ricambi, in cui lo stupore non lascia spazio a nessuno pudore.
Sguardi maschili così pressanti potrebbero fare paura, ma non ne ho avuta. Un po’ per indole, un po’ perché ero con Fabio, un po’ perché più che sguardi predatori mi sono sembrati sguardi avidi di nuovo.
Non di rado i media internazionali ritraggono l’India come il “Paese dello stupro”, primato che è difficilissimo da documentare. Guardando alla classifica del World Population Review dei Paesi con il più alto tasso di stupri, l’India occupa il 94esimo posto, ma la definizione giuridica di “stupro”, il delta tra le violenze e le denunce, per non parlare di quello tra le denunce e le condanne4, rendono questo dato quasi impossibile da comparare. I casi di stupro sono indubbiamente tanti, ma sempre da ponderare rispetto a un totale della popolazione di oltre un miliardo e 400 milioni di persone, per cui in proporzione la percentuale risulta nettamente inferiore a quella di tanti altri Paesi5.
“We have a small life. Can we take a picture with you, please?” - noi in pericolo non ci siamo sentiti, anzi, abbiamo trovato gentilezza e un’etica molto forte - se dimentichi qualcosa in giro, tutti si prodigano per restituirtelo prima che tu ti accorga di averlo perso. Per quanto mi riguarda, Mumbai è la prima città dove sono stata in cui le persone del posto chiedono agli stranieri di fare foto insieme, anche se Pooja ci ha spiegato che spesso queste foto vengono pubblicate dagli indiani sui social network per millantare parenti o relazioni con occidentali.
Pooja è una giovane donna di ventidue anni nata e cresciuta nel Dharavi di Mumbai, la più grande baraccopoli (o “slum”) dell’Asia e una delle più grandi del mondo: si estende per 2,5 kmq in cui vivono 2 milioni di persone - la stima ufficiale dice 1 milione, ma qui tutti sanno che non è vero. Stiamo parlando più o meno di una persona per metro quadrato.
Chi vive qui versa indubbiamente in uno stato di profonda povertà, ma si stima che le attività del Dharavi generino un giro d’affari di oltre 700.000 milioni di dollari l’anno per 20.000 imprese.
Come diavolo è possibile? Volevamo vedere con i nostri occhi, anche se decidere di visitare il Dharavi può risultare controverso, ed è sconsigliato farlo se non accompagnati. È qui che entra in scena Pooja, una guida che abbiamo conosciuto tramite un’associazione che devolve l’80% dei profitti a programmi sociali per la popolazione locale.
Incontrare Pooja è stato incredibile: attraverso le tante contraddizioni, perfettamente umane, di una persona abituata a indossare una maschera per turisti, ma anche di una donna estremamente intelligente, ci ha piano piano permesso di aprire un piccolo scorcio sul suo quartiere e sulla sua vita.
Ex palude abitata da pescatori, con il prosciugamento delle acque il Dharavi ha attirato emigranti, dal sud di Mumbai e da altre zone dell’India, che hanno iniziato a costruire abitazioni di fortuna e avviato piccole attività commerciali. Oggi i residenti pagano l'affitto, quasi tutte le case sono sono dotate di una cucina e di un impianto elettrico e il livello qualitativo delle abitazioni va dalle catapecchie in lamiera ondulata agli edifici in cemento a più piani. Manca una rete idrico-fognaria, ma molte famiglie vivono qui da generazioni e il tasso di scolarizzazione è più elevato che in molte aree rurali: il 15% dei bambini completa le superiori, e alcuni di loro diventano impiegati nella City, anche se spesso preferiscono continuare a vivere nella baraccopoli dove sono cresciuti6.
Tra loro Pooja, una forza della natura alta un metro e quaranta con una lunga chioma nera e un bellissimo sari colorato, che ci ha guidato attraverso un labirinto di vicoli delimitati da fogne a cielo aperto e animati da una miriade di piccole attività artigianali e commerciali: i vasai di Saurashtra, i conciatori musulmani, i ricamatori dell'Uttar Pradesh, le donne di Mumbai che riciclano la plastica. Qui trovate il video delle parti del Dahravi in cui era consentito girare. Secondo Pooja, ad esempio, lui sta cucendo delle Nike:
Devo ammettere che per quanto incredibile sia stato scoprire dal vivo l’esistenza di un posto come il Dharavi, durante tutta la giornata che abbiamo trascorso con Pooja il mio interesse è stato completamente catalizzato da lei, che si è presentata dicendoci forte e chiaro: “Don’t trust people”.
Quando sei in viaggio in posti con culture diverse dalla tua, mantenere un giusto mix tra attenzione e fiducia nei confronti delle persone che incontri è fondamentale. L’attenzione è una precauzione necessaria, per rispetto di se stessi e degli altri, ma senza fiducia non ha senso partire. Volevo capire meglio quindi che cosa ci fosse dietro un monito così puntuale, da parte di un’abitante del Dharavi che comunque di mestiere accompagna le gente nel suo quartiere. Scherzando, le ho chiesto se potevo fidarmi di lei, e lei mi ha risposto: “Lo vedremo a fine giornata”.
Camminando per Mumbai in direzione del Dharavi, ci ha fatto strada attraversando il traffico più pazzo che io abbia mai visto, dove non ci sono regole né precedenze e il suono del clacson non significa, come da noi, un richiamo all’attenzione, ma grosso modo un “se non vai tu lascia passare me”. Come dire, un po’ ambiguo… Ma Pooja è riuscita a imporsi su quell’imponente flusso di macchine con un’eleganza rara.
Durante il tragitto diverse persone ci hanno fermato per chiedere l’elemosina, ma con la stessa mano ferma con cui ha fermato il traffico Pooja le ha cacciate e ci ha rimproverato per aver loro sorriso: “Non dovete sorridere, guardarle negli occhi o rivolgere loro la parola. Non date mai niente a nessuno, altrimenti rinforzate cattive abitudini”. Il ragionamento ovviamente ci sta e non è nuovo, ma la fermezza con cui lo ha pronunciato lei sembrava avere un forte richiamo nella sua esperienza personale e sociale. Le ho chiesto con quali modalità secondo lei fosse meglio donare, e lei mi ha ribadito che è meglio non farlo affatto. Eppure, la religione induista prevede l’obbligo di elemosina da parte delle caste più alte, tramite l’offerta di cibo di buona qualità donato con gentilezza7.
In India il sistema delle caste è stato ufficialmente abolito nel 1947, anno in cui l'India ha ottenuto l'indipendenza. Da allora, non dovrebbe essere più consentito discriminare una persona in base alla sua presunta casta di appartenenza. Ma è un sistema che ha profonde radici nell’induismo e nella realtà dei fatti ha ancora un’influenza molto forte sull’organizzazione della società indiana, dai matrimoni combinati alla ripartizione dei posti di lavoro, dalle regole della circolazione dei beni a quelle sull’assegnazione dei posti a sedere sui mezzi di trasporto.
Quella delle caste è una struttura gerarchica che stabilisce diversi livelli di stratificazione sociale, fondati sulla condizione individuale ereditata alla nascita, che si crede essere la conseguenza del livello di purezza etica e spirituale raggiunto nelle vite precedenti8.
Pooja è donna, induista, nata nel Dharavi, istruita, lavoratrice affermata e chissà quante altre cose insieme. Le ho chiesto se il suo rifiuto di fare l’elemosina c’entrasse con il sistema delle caste. Stando a quello che dice, le caste in India non esistono più, chiunque non stia bene dove sta si può spostare. Ma quando riesco a farla parlare di sé emergono tantissime sfaccettature diverse e per noi contrastanti: giocava a calcio nel ruolo di attaccante, ma ha smesso per amore. Il suo fidanzato, nonché promesso sposo, non vuole che lei mostri le gambe durante le partite. Le ho chiesto se valesse la pena rinunciare alla propria libertà per una relazione, anche se il matrimonio è un’istituzione sociale ed economica prima che sentimentale, in India oggi più che altrove. Lei mi ha risposto che l’amore è crescita, e crescere implica delle rinunce.
Le ho chiesto allora a che cosa ha rinunciato il suo ragazzo per lei, mi ha risposto che non fuma più. Non ho insistito.
Tra le varie “botteghe” del Dharavi mostrava molto orgoglio e snocciolava moltissime informazioni, collegando la produzione locale a grandi multinazionali come Nike e Amazon. Ha concluso il tour con un piccolo monologo retorico sulla felicità, chiedendo a noi che cosa avessimo imparato da questa esperienza. Abbiamo esitato un attimo e ci ha fornito lei la soluzione: “La felicità è stare bene con le piccole cose”. Le ho chiesto se lei fosse felice o se si sentisse sfruttata. Mi ha fulminato con un’occhiata incredibile, ricca di sfumature dall’ostilità all’intesa, è scoppiata a ridere per nascondere l’imbarazzo e mi ha detto: “Per me la felicità è stare con il mio ragazzo, quando non sono con lui mi manca, è una dipendenza”. Sorrido anche io, ma le chiedo se ha altre dipendenze. Non ci deve pensare un attimo: “Instagram!”. Guardo lei, guardo Fabio, guardo il telefono che ho in mano. Le rispondo che io ho imparato a fidarmi di lei.
Federico Badaloni è un giornalista laureato in Antropologia Culturale ed è responsabile dell’area di Architettura dell’Informazione e User Experience Design della Divisione Digitale del Gruppo Editoriale GEDI
Marina Pierri è una studiosa di narratologia e co-fondatrice e direttrice artistica del Festival delle Serie TV. Autrice di diverse pubblicazioni, per FEM cura Storie, un vodcast di fem e Onepodcast.
Di certo non c’è Mumbai nella Top 20 delle città più visitate al mondo nel 2023, ma oltre a me e Fabio c’era - rullo di tamburi - LA CHARLIE! Un grande abbraccio a Carlotta Borroni, autrice e film maker con cui ho lavorato in passato con cui abbiamo bevuto una birretta - sì, si poteva fare.
Per resistere al terrificante fenomeno dell’arresto, da parte di poliziotti corrotti, delle vittime di stupri che denunciano i propri aggressori, è nata la Gulabi Gang, un controverso ma decisivo movimento femminista indiano nato nel 2006.
Si legge spesso che in India viene commesso uno stupro ogni 20 minuti, ma si tende a ignorare che le statistiche ufficiali degli Stati Uniti riportano un caso ogni 1-2 minuti, su una popolazione di gran lunga inferiore (per approfondire, l’analisi di Clementina Udine, esperta di cooperazione internazionale).
Fonte: Kevin Raub, “L’India del Sud”, Lonely Planet
Nel romanzo Untouchable (1935) di Mulk Raj Anand, si solleva una questione morale legata al cibo relativa al disprezzo da parte della classi più alte verso i fuori casta alla base della piramide sociale. Ghandi risolve questo conflitto ricordando a tutti i fuori casta che se si rifiutassero di ricevere le elemosine date con disprezzo, gli indù di alta casta non sarebbero nelle condizioni di rispettare i loro precetti religiosi.
Ci tornerò, ma a chi interessa consiglio questa spiegazione introduttiva di Conscious Journey.
Anche io per il mio primo viaggio solo andata ho riempito uno zaino da 80 litri, poi con la prarixa si migliora o quasi 😂