La rappresentazione della nostra vita come una storia lineare è una trappola.
È il prodotto di una precisa forma di dominio culturale - perpetrato attraverso il mito dell’eroe, il culto del progresso, le strutture verticistiche, l’esaltazione della produttività, il bisogno di un nemico - che scava nella nostra mente fino a privarci di libertà e felicità.
Viviamo nell’illusione, non priva di arroganza, secondo la quale la nostra vita si sviluppa attraverso un percorso lineare fatto di cause ed effetti, ostacoli e successi, gerarchie da scalare e guerre di potere.
All’interno di questa illusione, abbiamo bisogno di misurarci costantemente e per farlo usiamo le opinioni degli altri (anche quando si riducono a un like), soffriamo di un grande senso di inferiorità che spesso diventa invidia1, frustrazione o più direttamente tristezza, e consideriamo quegli stessi altri di cui cerchiamo l’approvazione come nemici, invece che nostri compagni - anche se ci assomigliano tantissimo2.
Instagram e il fenomeno influencer hanno sicuramente avuto un ruolo come moltiplicatori del disagio, ma la causa è più profonda. Abbiamo accettato di misurare il nostro valore, non solo professionale, ma umano3, con la capacità che abbiamo di venderci agli altri, quindi di ridurre noi stessi a un prodotto in balìa del consumo (e delle recensioni) dei clienti. Perché?
Dato che il rigetto per queste dinamiche ha giocato un ruolo, neanche così piccolo, tra le motivazioni che mi hanno portato a dare le dimissioni e partire per l’Asia, provo a rispondere a questa domanda con le lenti attraverso cui le guardo ora, da qui - forse, “da fuori”.
Il rapporto con noi stessi
Secondo lo psicologo Alfred Adler, il terzo incomodo tra Freud e Jung, si è infelici quando si è incapaci di apprezzare se stessi. Non avendo sufficiente autostima, cerchiamo approvazione negli altri e per ottenerla facciamo di tutto - pure dei figli - per corrispondere ad aspettative esterne. Chi sono davvero questi altri è una bellissima domanda, se accettiamo di farcela sul serio. Il risultato è che rinneghiamo chi siamo veramente (potrei dire: non seguiamo il nostro dharma) e finiamo a vivere vite che non sono la nostra, che ci stanno molto scomode, che non sono della nostra misura. Questo vale per gli influencer che scelgono non solo cosa pubblicare, ma come vivere in base a quello che funziona sui social, vale per i figli che rinunciano alle proprie inclinazioni per seguire le orme dei genitori, per le coppie che rifiutano di guardarsi in faccia pur di mantenere la relazione, vale per tutti coloro che hanno paura di realizzare i propri desideri e scelgono di conformarsi all’idea che - così credono - gli altri hanno di loro. Tanto è potente il bisogno di approvazione sociale. Rispondi di getto, è un sondaggio anonimo:
Adler è il primo a utilizzare formalmente il concetto di “senso di inferiorità”: la nostra autostima è bassa perché invece di partire dalla realtà e apprezzare ogni nuova esperienza che ci arricchisce, abbiamo postulato un ideale e disprezzato ogni nostra mancanza che da quell’ideale ci tiene distanti4. Quell’ideale nasce da un’operazione di astrazione che compiamo misurandoci uno con l’altro. Confrontandoci, ci siamo visti diversi e ci siamo spaventati: invece di valorizzare le nostre differenze, abbiamo provato a disintegrarle. Ci siamo difesi con il giudizio e abbiamo creato relazioni di potere: abbiamo scelto di dire “Mi piace” invece di “Grazie”. Abbiamo quindi imparato a temere il giudizio, perché causa esclusione, ma anche a desiderarlo, perché se dimostriamo di poterne ottenere uno alto, ci può portare prima al sicuro, poi al vertice della scalata.
Di quella paura possiamo chiederci la causa - ma restiamo all’interno di quella rappresentazione lineare della vita che si rivelerà il vero colpevole. È quello che farebbe Freud: qual è la causa, qual è l’origine? Identificazioni problematiche con figure genitoriali insoddisfacenti, repressione di desideri inconsci, conflitti intra-psichici possono spiegare la bassa autostima, secondo un approccio eziologico che scava alle origini del problema e ne giustifica in qualche modo la presenza.
Senza che l’eventuale efficacia di una strada di questo tipo sia messa in discussione, Adler fa un’operazione diversa: non si interroga sulle origini biografiche, ma sulle finalità attuali del sintomo. Qual è il fine? Che scopo ottieni con lo schema che adotti? La bassa autostima non deriva mai da una condizione reale, ma dalla nostra interpretazione di quella condizione. Anche quando si tratta di un numero sulla bilancia, è sempre il significato che gli diamo che fa la differenza. Il vantaggio dell’interpretazione è che in fondo possiamo cambiarla, lo svantaggio è che possiamo rifiutarci di farlo e attuare una forma di protezione contro le richieste della vita, un modo per giustificare lo stato attuale delle cose e resistere ai cambiamenti che potrebbero essere difficili o scomodi.
Quale vantaggio ottieni dal non piacerti? Che funzione svolge per te la bassa autostima?
Può essere una scusa per evitare situazioni che sono percepite come difficili o rischiose: se pensi di non essere all'altezza, eviti attività - che pure desideri - che potrebbero esporti al fallimento. Può essere un modo per ottenere supporto passivamente: me tapino, pensaci tu. Può essere un esercizio di controllo sulle proprie aspettative e quelle altrui.
Tra gli effetti della bassa autostima, c’è anche la scarsa capacità di costruire relazioni interpersonali funzionali, relazioni che mantengano la giusta distanza con gli altri: non troppo vicino, non troppo lontano. L’aspetto disfunzionale ci protegge da una verità scomoda: è praticamente impossibile non farsi male, in tutte le relazioni. Ti potrai fare male tu, e potresti essere tu a ferire gli altri. La differenza è che se sei mosso dal bisogno del riconoscimento altrui, lasci che siano gli altri a dare le carte. Altrimenti, hai la tua occasione di disegnare la tua vita liberamente. Disegnare, non misurare. Ma per emanciparsi dal giudizio altrui, un po’ di autostima bisogna averla. Dobbiamo eliminare il bisogno di riconoscimento da parte degli altri, anche se degli altri avremo sempre bisogno. Ma come riuscirci? Serve trovare il coraggio di non piacere, per perseguire quello che si è.
Spesso è la paura di restare soli che ci impedisce di essere chi siamo a costo di non piacere agli altri. Ma se ci snaturiamo per sentirci accettati, allora sì che siamo soli: siamo addirittura noi ad abbandonare noi stessi. Se invece impariamo ad amarci, non saremo soli mai. Quanto è difficile? Due esempi recenti, solo sulle donne e la loro pancia: Gynepraio e Aurora Ramazzotti. Ed è chiaro che non sto parlando solo di accettare e amare il proprio corpo.
Adler dà un taglio netto a questo nodo e risponde dritto: sottraendosi alle lotte di potere, agli ambienti gerarchici, alle relazioni verticalizzate possiamo rompere questo ciclo. L’autostima si riconquista con l’amicizia.
Con un gesto di coraggio e di fiducia cieca, che è cieca perché sappiamo che possiamo sempre restare fregati, bisogna smetterla di guardare gli altri come avversari, cercando il loro plauso o aspettando la loro caduta per sentirci meglio, e fare il primo passo per creare amicizia e armonia con il prossimo. Suona cristiano, ma l’amore per il prossimo non è un fine in sé. Fa più male vivere in costante sfiducia e competizione, che restarci male le volte in cui andiamo in pace e gli altri se ne approfittano.
In tedesco, la parola Gemeinschaftsgefühl include sia il senso di appartenenza che quello di contributo alla comunità a cui si appartiene. In tutta questa retorica delle community forse ci siamo dimenticati il contributo. Non c’è niente che alimenti l’autostima - quella vera, non il rinforzo positivo, superficiale e mai sufficiente al nostro bisogno di approvazione - come mettersi al servizio di una comunità di appartenenza. Guardare a se stessi come un soggetto che aiuta gli altri, non un oggetto del loro giudizio, sottrarsi alle gerarchie e contribuire in modo paritario ci aiuta a dare valore a noi stessi e rende superflue le lotte reputazionali5. Rende superflua anche la scalata al vertice, perché mostra l’ipocrisia della linea.
L’ipocrisia della linea
Quando ci si sente utili verso una comunità di appartenenza, cresce l’autostima, si è felici e non si ha bisogno di riconoscimento. Sarà vero? Di certo si spiega perché la vera solitudine è quella che si prova non quando si è da soli, ma quando si sta insieme agli altri senza una reale connessione.
Il nesso tra la sensazione di rendersi utile agli altri e il beneficio che se ne trae in termini di autostima per Adler non è una contraddizione, anzi: non c’è nessun bisogno di sacrificare il proprio io, anche perché - addirittura - sentirsi utili non significa esserlo davvero, ma è sufficiente per essere felici. La finalità qui è la propria felicità e il parere degli altri non conta. Quindi nessun problema se lo fai per te stesso, ma attento se lo fai per il riconoscimento che ne deriva: non è così che otterrai la tua felicità.
Se vogliamo essere felici non dobbiamo vivere per soddisfare le aspettative altrui, proprio non è necessario: impara a riconoscerle, smettila di seguirle. Corollario notevole: anche gli altri non vivono per soddisfare le tue aspettative. Quindi se puoi vedi di non rompere i c***. Set Boundaries è una mantra molto utile e per quanto mi riguarda mai inflazionato.
Il trucco, quindi, sarebbe uscire dalle relazioni gerarchiche. Eppure le relazioni gerarchiche fanno parte del sistema della nostra società, potresti dire, e ignorare ciò significa ignorare l'ordine sociale. Uno spazio per la negoziazione però si trova sempre, uno spazio per proporre un modo diverso di fare le cose, o per rifiutare.
Se davvero proprio questo spazio non c’è, a me sembra chiaro che sia quello il segnale per cambiare aria. Adler direbbe: “Ascolta la voce di una community più ampia”. Io direi “cambia bolla”, perché di bolle si tratta: non prendere i confini del tuo campo visivo per i limiti del mondo6, che è ancora grande, nonostante tutto. La cosa che mi piace di più dell’essere in viaggio è che tocchi con anima e corpo il fatto, non l’idea, che si può vivere diversamente - lascia stare meglio o peggio, ci sono delle alternative, non siamo in gabbia.
Questo tipo di filosofia non sempre trova approvazione, perché sembra che carichi tutta le responsabilità sull’individuo e quindi trascuri il peso del contesto e delle condizioni di partenza, diverse per ognuno di noi, che rendono la vita particolarmente difficile per grande parte della popolazione. Non sto dicendo che chiunque può fare quello che vuole e sono ovviamente contraria alla retorica dell'individualismo meritocratico, per cui “il successo e il fallimento” degli individui dipendano esclusivamente dai loro sforzi personali, dal talento e dalla determinazione. Certo che ci sono delle ingiustizie sistemiche. Ma se vogliamo disinnescare il potere di quella retorica, non possiamo auto-assolverci se non facciamo nulla per cambiarlo. Dobbiamo ridisegnare che cosa vuole dire per noi successo e fallimento.
Non sto dicendo che la concezione lineare e gerarchica della vita sia una responsabilità dell’individuo, sto dicendo che se agisci come se non fosse una tua responsabilità, perdi l’occasione di provare a vivere la vita che vuoi.
Lasciare che le nostre scelte siano guidate da esperienze passate, aspettative per il futuro, giudizio degli altri e posizione in una scala gerarchica, significa condannarsi alla frustrazione perenne.
Uscire dalla relazioni gerarchiche significa lasciar andare tutte queste cose, e lasciar venire, come mi insegna
in Vivere i propri pensieri citando il filosofo François Jullien: “il lasciar venire è diverso dal lasciar andare. Il lasciar venire va contro tutti i piani, le proiezioni, le previsioni, i gradini, le teorie di ogni tipo. Il lasciar venire è l'idea che tutto nella vita, incluso dare un senso, è una questione di esperienza.”Nella teologia cattolica, l’avvento di Cristo rompe il cerchio e stabilisce la linearità del tempo, il presente perde valore in funzione di un salvezza futura. Nelle Confessioni, Sant'Agostino afferma: "Il tempo presente, se fosse sempre presente e non passasse mai al tempo passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se, dunque, il presente, per essere tempo, tende a divenire passato, come possiamo dire che anche questo esista, se la causa della sua esistenza è che cessa di essere?".
Nelle filosofie orientali, invece, il tempo resta circolare e il presente è il suo centro: è qui e ora che si gioca la partita dell’esistenza. "Il passato e il futuro esistono nella loro propria forma, essendo differenti dai diversi percorsi del tempo. Il presente è la loro condizione di manifestazione." (Patanjali, Yogasutra, III.15).
Secondo Sant'Agostino, il presente non esiste. Secondo Patanjali, esiste solo il presente. Secondo te?
Nessuno di noi ha la risposta, ma agire scegliendo di credere in una filosofia o nell’altra cambia tutto.
Il finale della storia
Come ha scritto bene
in Un viaggio inaspettato, identificare le storie con il viaggio è un grande classico, ma a volte anche una trappola. È vero anche il contrario: quando viaggi, le persone si aspettano da te la storia, e forse anche tu te l’aspetti. Io sono in viaggio da quasi sette mesi ormai, e - giustamente - le persone cominciano a chiedermi: “Quindi? Poi? Allora che fai? Quando torni?”. Si aspettano che il viaggio, come ogni storia che si rispetti, abbia una fine.Proviamo a chiederci, con Adler, che scopo otteniamo coltivando questa aspettativa. Forse ci rassicura: vivere da nomadi è un’impresa così diversa dalla nostra quotidianità che è più rassicurante pensare che sia una parentesi, piuttosto che un’alternativa possibile. Ma se è vero che viaggiare è una continua palestra decisionale, è anche vero che la vita lo è, solo che la forza delle abitudini di una vita sedentaria rischia di illuderci che le nostre decisioni non si possano cambiare. Il nomadismo questa illusione non te la lascia. Come dovrebbe essere, allora, la fine del viaggio?
in Il viaggio senza eroe racconta che quando è arrivato al cartello “Ushuaia - Fin del mundo” dopo aver attraversato un intero continente via terra, zaino in spalla, si è accorto che la parola “fine” presupponeva una certa linearità che non rispecchiava le sue sensazioni interiori:Tutti quei ricordi mi apparivano disposti sullo stesso piano come i pezzi di un puzzle paradossale che potevano essere scambiati a piacimento senza generare alcuna figura nitida e definita. Era stato facile, un anno prima, iniziare il viaggio pieno di sogni e di aspettative ed era così difficile adesso mettere la parola "fine". Sancire la differenza tra ciò che era stato e ciò che sarebbe potuto essere. […] È così liberatorio emanciparsi dalla rappresentazione della nostra vita come una storia lineare, in modo da poter fare e disfare senza sentire la pressione di buchi narrativi. È in questo modo che vorrei custodire questi ricordi, sfuggendo al ritmo della narrazione, aprendo finestre sparse nel tempo, senza la chiamata all'avventura, senza l'incontro con il mentore, senza il climax centrale e nessun finale. Ed è così che vorrei raccontare il mio viaggio, sperando di riuscire a sfuggire alla tentazione di rappresentarlo come una grande storia e dando, magari, a coloro che fossero tentati, la leggerezza di fare il primo passo.
Per il momento, io leggo il racconto di chi torna - ti consiglio Chi mi conosce veramente?, sempre di Vincenzo Rizzo, e Non mancherai a nessuno di
Gianfagna.Vorrei, però, che anche tu rispondessi alla domanda che è più facile fare a chi viaggia, ma che dovremmo farci tutti, tutti i giorni:
adesso che vuoi fare?
Proprio all’invidia Angela Cannavò ha dedicato la sua bellissima newsletter Invidiosa, che consiglio a tutti
Sparlarne tra nemici, episodio di Culture Wars che, ribaltando il titolo del romanzo di Sally Rooney, ci mostra per l’ennesima volta che nelle faide tra influencer il più pulito ha la rogna.
Le contraddizioni del “Personal Brand” in Niente di personale di Francesca
Un saluto alla critica nietzschiana del platonismo cristiano
È anche per questo che lo sfruttamento manipolatorio della beneficienza nella forma di un bonifico per ripulirsi la reputazione - nemmeno la coscienza - difficilmente viene perdonato.
Schopenhauer <3
Mi sono stampata il testo perché richiede riflessioni più profonde di quelle che posso fare a schermo. Intanto grazie di cuore!
Comma’, che numero, grande!
Ho fatto fatica a trovare una citazione adatta da ripostare perché ce n'erano troppe