Le donne della comunità Padaung in Thailandia: tutela degli apolidi o Human Zoo?
Viaggiare mi pone dei dilemmi che io pongo a te
Ciao!
rieccomi qui a provare a mettere in ordine i pensieri e le emozioni relativi a tutte le esperienze che io e Fabio stiamo facendo da quando abbiamo deciso di dare le dimissioni, lasciare Milano e partire per il Sudest Asiatico.
Saluto tutti i nuovi iscritti alla newsletter e ringrazio chi si è preso la briga di condividerla: ci tengo molto, quindi grazie! Se avete voglia di scrivermi personalmente, fatelo, e ci conosciamo.
In questo momento sono a Chiang Rai, nel Nord della Thailandia, un posto incredibile che potrei raccontarvi da diverse angolature, e probabilmente nel tempo lo farò, ma ho deciso di dedicare questo numero a un gruppo di persone che vive al confine nel cosiddetto Golden Triangle, la zona montuosa compresa fra il Myanmar, il Laos e la Thailandia.
Se vi dicessi che qui c’è un villaggio di rifugiati politici con tradizioni culturali controverse che oggi vivono grazie al turismo, lo visitereste?
Il Golden Triangle si chiama così perché per secoli è stato un punto nevralgico del traffico di oppio, anche detto “Black Gold”, tra tre nazioni con politiche diverse, i cui interessi economici da sempre si incontrano e si scontrano in questo triangolo di terra che è il loro confine.
Dall'indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1948, il Myanmar (ex Birmania)1 ha dovuto affrontare pesanti sfide derivanti dall’esistenza di una diversità etnica importante al suo interno: sono 135 le etnie diverse ufficialmente riconosciute.
Il governo centrale tentò di creare uno stato unitario, ma molte minoranze etniche, tra cui i Karen, i Kachin, i Shan e altri, non essendo soddisfatti degli accordi post-coloniali, che non riconoscevano adeguatamente i loro diritti e le loro aspirazioni politiche, reclamarono autonomia o indipendenza, portando anche a conflitti armati.
Nel 1962, un colpo di stato militare portò al potere il generale Ne Win, che instaurò una politica di "Birmanizzazione" e portò avanti un tentativo di assimilazione forzata delle diverse etnie presenti sul territorio, da cui risultò un'intensificazione degli scontri. Le politiche economiche fallimentari aggravarono ulteriormente le tensioni.
Negli anni '80 e '90, ci furono tentativi intermittenti di negoziati di pace, ma questi sforzi furono ostacolati da sfiducia reciproca, continue violazioni dei diritti umani e dalla continua esclusione politica delle minoranze. Il regime militare consolidò ulteriormente il proprio potere.
La transizione del Myanmar verso una relativa apertura politica nel 2011, con la fine del governo militare diretto, ha offerto una nuova speranza per il dialogo. Tuttavia, nonostante i tentativi di riforma e negoziazione, come il processo di pace a livello nazionale iniziato nel 2015, i conflitti armati e le tensioni etniche persistono in molte aree. Motivo per cui in Myanmar non ci andiamo (tranqui, mamma).
Chi sono i “Karen”
“Karen” tra virgolette perché il significato del nome non è univoco: la denominazione è stata attribuita loro da altri gruppi etnici e, di conseguenza, dagli europei durante il periodo coloniale. I Karen si riferiscono a sé stessi con vari nomi a seconda del sottogruppo di appartenenza, come Sgaw, Pwo, o Kayah, tra gli altri. Qui parleremo nello specifico dei Padaung, anche se il loro appellativo più diffuso resta “Karen” come termine ombrello.
La cultura dei Karen è antica di secoli, con origini che risalgono probabilmente a oltre 2.000 anni fa. Sebbene sia difficile stabilire una data precisa per l'inizio della loro storia a causa della scarsità di fonti scritte e della natura orale delle loro tradizioni, gli studiosi ritengono che i Karen abbiano iniziato a migrare dall'area che oggi corrisponde al Tibet e al sud della Cina verso le loro attuali sedi in Myanmar e Thailandia intorno al VI secolo d.C..
Questa migrazione non fu un evento unico, ma piuttosto un processo graduale che si svolse nel corso di molti secoli. La loro storia è stata segnata da una serie di spostamenti e dall'adattamento a nuovi ambienti, attraverso l’influenza che hanno avuto e subito rispetto alle culture con cui venivano in contatto.
Durante questo lungo periodo di migrazione e insediamento, i Karen hanno sviluppato un'ampia gamma di pratiche agricole, tradizioni culturali, e sistemi di credenze religiose che riflettono la loro profonda connessione con la terra e l'ambiente circostante.
La spiritualità gioca un ruolo centrale nella loro vita quotidiana, con una fusione di animismo, buddismo e, in alcuni casi, cristianesimo. Le canzoni, le danze e i tessuti tradizionali sono espressioni vitali dell'identità Karen, trasmesse di generazione in generazione, dimostrando una certa resilienza e capacità di mantenere la propria identità culturale, nonostante le pressioni esterne e i cambiamenti politici2.
La caratteristica più controversa e iconica della loro cultura è però la prassi di far indossare alle donne degli anelli di metallo attorno al collo, già a partire dai 5-9 anni.
Si tratta di anelli di ottone o altri metalli che possono pesare fino a 6-10 chilogrammi in totale. Al collo, sì, al collo. Ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, gli anelli non allungano effettivamente il collo. Piuttosto, il peso degli anelli abbassa le clavicole e comprime le vertebre del torace, creando l'illusione di un collo più lungo.
Per questo, le donne Padaung sono anche chiamate "donne giraffa" o Long Neck Karen.
Chi li indossa tendenzialmente non li rimuove mai, se non durante una specifica cerimonia riservata alle donne. In questo caso, è necessaria estrema cautela perché il collo ne risulta gravemente indebolito - non possono più muoversi normalmente. La stessa tipologia di anello può essere indossata anche attorno alle braccia e alle gambe.
Alcune interpretazioni tradizionali suggeriscono che gli anelli servano da protezione contro gli spiriti maligni o i predatori, oltre che un simbolo di bellezza ed eleganza. Questa credenza può variare tra diverse comunità e famiglie, ma rispecchia la dimensione spirituale e simbolica che la pratica aveva in passato. Oggi, è soprattutto un simbolo identitario di appartenenza etnica.
Non esiste un'unica regola rigida che governa questa pratica; varia notevolmente tra le diverse famiglie e comunità. Alcune donne continuano ad aggiungere anelli nel corso della loro vita, mentre altre possono smettere di aggiungerne o persino scegliere di rimuoverli.
La decisione di indossare gli anelli può essere personale, ma è anche profondamente influenzata dalla tradizione, dalla famiglia e, in alcuni casi… dalle aspettative turistiche.
Già, perché da quando la situazione politica nel Myanmar ha costretto molti Karen a fuggire dalle loro terre e dalle ripetute violazioni dei diritti umani che lì si consumano, fino a richiedere asilo in Thailandia, i Padaung vivono come rifugiati in campi allestiti lungo il confine.
Questi campi sono già controversi di per sé, perché pur offrendo rifugio, sono spesso limitati in termini di accesso all'istruzione, a cure mediche e a opportunità economiche. Figuriamoci quando diventano attrazioni turistiche.
Il “Long Neck Karen Village” in Thailanda
Il governo thailandese ha riconosciuto alle persone di questa comunità lo status di rifugiati, concedendo loro di poter occupare una porzione di suolo thailandese perimetrato, vicino al confine del Golden Triangle. Poi, attraverso il dipartimento del turismo e altre agenzie, ha attivamente promosso la possibilità di visitare a pagamento questo luogo, di fatto un accampamento profughi da cui non possono uscire, con postazioni di tessitura, mercatino di tessuti e paccottiglia cinese, ed esposizione delle donne Padaung3 .
Ora, nel discutere questa situazione sono cruciali sensibilità e rispetto per la complessità e la profondità delle tradizioni dei Padaung. La loro cultura, come quella di molti gruppi etnici, come tutte le culture, riflette un equilibrio tra conservazione e adattamento a forze esterne, dai cambiamenti geografici a quelli storici ed economici. Ma il livello di controversia è direi molto alto:
La condizione di queste donne è problematica, storicamente e oggi: quanto sono ancora tollerabili, oggi, tradizioni che violano i diritti umani come lo è quella - credo siamo d’accordo - di deformare il corpo femminile?
Imporre il rispetto dei diritti umani a culture che non li riconoscono e non li sentono propri è una violazione o una tutela delle persone che appartengono a queste culture? Se è una violazione, come decidiamo se è più o meno tollerabile di altre?
Sostenere che queste donne siano libere di scegliere è a sua volta problematico: forse lo sono, o forse no; forse la loro è una libertà condizionata da fattori non condivisibili, ma che loro accettano. Hanno tutti gli strumenti per accettarlo consapevolmente? Chi glieli può dare?
È etico visitare questo campo? Cioè è una cosa giusta da fare? Da un lato, come principale loro fonte di sostentamento economico, dovrebbe essere ciò che permette a queste comunità di continuare a esistere così come sono, senza essere assorbite. Ma siamo sicuri che le stiamo conservando se (ripeto: SE) ora la motivazione principale che porta le donne ad accettare questa vita è l’istinto di sopravvivenza?
Questi anelli le stanno torturando o le stanno ancora proteggendo?
Se i diritti umani devono essere interpretati nel contesto delle differenze culturali…Allora non sono universali.
Dal punto di vista dell'universalità dei diritti umani, intervenire per proteggere individui da pratiche culturali dannose è considerato un obbligo morale e legale internazionale, mirato a salvaguardare la dignità e il benessere di tutti gli esseri umani.
Dal punto di vista del relativismo culturale, imporre standard esterni può essere percepito come un atto di imperialismo culturale che viola il diritto di autodeterminazione dei popoli e ignora il valore e il significato delle pratiche tradizionali.
Io, alla fine, a visitare il campo ci sono stata, con l’illusione egocentrica che raccontartelo mi redima dal dilemma.
"Birmania" deriva dal nome del più grande gruppo etnico del paese, i Bamar (o Burman), e fu adottato dai colonizzatori britannici durante il periodo dell'Impero britannico. "Myanmar" è una forma più formale e antica del nome del paese nella lingua birmana, che cerca di includere una gamma più ampia di gruppi etnici presenti nel paese, oltre ai Bamar. Il governo militare che prese il potere in un colpo di stato nel 1989 decise di cambiare ufficialmente il nome inglese del paese da "Burma" a "Myanmar" per motivi che includevano sia la volontà di allontanarsi dall'eredità coloniale, sia quella di riflettere meglio la diversità etnica del paese. La scelta tra "Birmania" e "Myanmar" non è quindi priva di implicazioni politiche. Alcuni gruppi di opposizione e attivisti per i diritti umani preferiscono usare "Birmania" per esprimere dissenso nei confronti del governo militare che ha cambiato il nome. Nel linguaggio internazionale e diplomatico, "Myanmar" è diventato il termine più comunemente accettato, sebbene "Birmania" rimanga in uso in diversi contesti, soprattutto quando si fa riferimento al paese in un senso storico o per sottolineare specifiche posizioni politiche.
Lo sappiamo soprattutto grazie al lavoro di ricerca di Ananda Rajah, antropologo che si è focalizzato su temi come l'autodeterminazione etnica, i conflitti, le strategie di resistenza e adattamento delle comunità Karen di fronte alle pressioni esterne, incluse quelle derivanti dalla modernizzazione e dalla globalizzazione.
300 baht a persona, meno di 8€.
Ho risposto, con enorme tormento, l'autodeterminazione dei popoli - non perché non creda nell'universalità dei diritti umani, ma perché credo che sia importante che ogni popolo abbia l'opportunità di arrivarci nel suo modo. Credo che abbiamo assistito molte volte ai danni provocati dall'imposizione di un risultato, e a come questo approccio abbia generato una visione dei sud del mondo come "non ancora nord" invece che come luoghi dove esiste NEL nostro tempo un modo diverso, radicalmente diverso, di interpretarlo. È una questione estremamente interessante e molto spinosa, spesso purtroppo si finisce con il considerare una cultura come avanzata o retrograda adottando un solo parametro e ignorandone una marea di altri, e credo che questo sia uno dei problemi principali dell'approccio colonialista ai diritti umani.
Ciao Daria! Bel dilemma, non c’è che dire😜 personalmente credo che sia più importante fornire gli strumenti per raggiungere la libertà di scelta (educare anziché imporre). La cosa fondamentale, sempre secondo me, è accertarsi che in caso di rifiuto di indossare gli anelli, le donne non siano a rischio di persecuzione (incarcerazione o altro, come avviene per il velo per esempio). Inoltre, mi accerterei che la pratica, seppur non sana da un punto di vista medico, non impedisca alle donne una vita serena e autodeterminata (come invece è il caso delle mutilazioni genitali, per fare un esempio estremo). Mentre per quanto riguarda la visita del campo, io farei delle ricerche per vedere se effettivamente i miei soldi vadano a beneficio delle persone al suo interno. Sempre per fare un esempio estremo, non visiterei la Corea del Nord visto che i (molti) soldi che costa il visto finirebbero nelle tasche sbagliate. Ovviamente non è possibile trovare una soluzione definitiva a questi dilemmi ma è sicuramente interessante rifletterci su. Grazie ❤️