Smaterializzarsi
Ti dico la cosa più importante che ho capito grazie all'Intelligenza Artificiale
Immagina una macchina di teletrasporto che dematerializza una persona in un punto A, ne registra ogni dettaglio fisico (molecole, informazioni, configurazioni) e ricrea la stessa persona in un punto B.
Possiamo dire che la persona nel punto A e la persona nel punto B siano la stessa persona?
C'è una reale continuità tra la persona nel punto A e la persona nel punto B?
Se la persona nel punto B avesse gli stessi ricordi, tratti psicologici e coscienza dell'originale, sarebbe sufficiente per sostenere la continuità dell'identità personale?
Che cosa succederebbe se, ricreata la persona nel punto B, ci accorgessimo che la persona nel punto A non è stata davvero dematerializzata e fosse ancora anche lì? Quale delle due considereremmo la "vera" persona?
Che cosa accadrebbe, invece, se il processo di teletrasporto producesse due persone identiche alla persona originale, una nel punto B e una un punto C?
Non pensavo a Reasons and Persons (1984) di Derek Parfit dai tempi dell’università. Poi qualcuno ha iniziato a chiedermi: “Come sta andando il rientro?”
Le discussioni filosofiche sull’identità personale prendono la forma di esperimenti mentali tecnologici in concomitanza con le scoperte scientifiche del XX secolo (e sono praticamente sempre anticipate o amplificate dalla fantascienza - a proposito, ti consiglio questo numero di
: Le parole del cambiamento).Parfit si rende conto della possibilità che l’idea di un “Sé” granitico e unitario sia un'illusione, o una convenzione, innanzitutto perché non esiste sul serio un singola entità fisica che persista identica a se stessa nel tempo. Per definire una persona gli sembra più affidabile la continuità psicologica, quella di memoria, carattere e coscienza. Si apre un dibattito sulla sopravvivenza di tratti rilevanti nel tempo e sull’identità personale come costruzione flessibile.
In un altro famoso esperimento mentale, proposto da Bernard Williams, The Self and the Future (1970), ci viene chiesto di immaginare uno scenario in cui un individuo viene informato che il suo corpo verrà sottoposto a una serie di torture, ma la sua mente sarà spostata in un nuovo corpo prima che ciò avvenga. Anche se la persona sa che non soffrirà, l’idea del dolore inflitto al corpo originale provoca comunque terrore. Williams sostiene che l’identità personale non può essere separata dalla continuità fisica e corporea: la nostra identità è profondamente radicata nel corpo e nella sua persistenza fisica, un "sé" psicologico non può esistere senza un legame con il corpo fisico che veicola la coscienza. È una tesi che verrà in parte ripresa e ampliata successivamente da Shaun Gallagher, How the Body Shapes the Mind (2005), secondo cui la percezione di sé è incorporata nella nostra esperienza fisica del mondo, piuttosto che essere solo una questione di processi mentali interni - si parla di embodied cognition.
Secondo Thomas Nagel, The View from Nowhere (1986), influenzato dall’approccio fenomenologico alla coscienza, se un duplicato di me stesso avesse i miei ricordi e la mia personalità, ciò non significherebbe che la mia coscienza soggettiva – quel senso unico di "essere io" – si sarebbe trasferita alla copia. Non possiamo considerare il duplicato come il "me" originale, perché ciò che rende "me" davvero unico è l’esperienza soggettiva e immediata di esistere in prima persona. Questa visione ha conseguenze importanti: Nagel suggerisce che qualsiasi tentativo di replicare una persona fallisce nel catturare ciò che è più essenziale dell'identità, ovvero la prospettiva soggettiva individuale.
Negli ultimi decenni, una teoria alternativa molto influente sulla questione dell’identità personale è il narrativismo, proposto da filosofi come Marya Schechtman e Alasdair MacIntyre, secondo cui la nostra identità personale non è determinata soltanto da continuità psicologica o fisica, ma dal modo in cui costruiamo la nostra vita come una narrazione.
Marya Schechtman (The Constitution of Selves, 1996) sostiene che una persona è definita dalla coerenza narrativa della propria vita, cioè dalla capacità di integrare le esperienze passate, presenti e future in una storia unificata e significativa. Secondo Schechtman, l’identità personale non può essere separata dall’essere in grado di raccontare e comprendere la propria esistenza come una narrazione. In questo senso, l’identità è un progetto autobiografico in cui il sé è plasmato attraverso la coerenza narrativa. Alasdair MacIntyre (After Virtue, 1981) ha fatto strada a questa visione, sostenendo che l'identità è inseparabile dalla partecipazione a pratiche sociali e culturali che conferiscono significato alla nostra esistenza.
Sebbene MacIntyre e Schechtman siano riconducibile alla tradizione della filosofia analitica1, le loro posizioni sembrano echeggiare concetti legati alla fenomenologia e all’ermeneutica, soprattutto per quanto riguarda l’importanza di esperienza soggettiva e contesto storico, della storia di vita e del significato personale.
Secondo la teoria narrativa di Paul Ricoeur, le persone comprendono se stesse attraverso le storie che raccontano2. E per raccontare storie, hanno bisogno di una comprensione del tempo e della sua struttura. L’identità personale coinvolge due aspetti: l’idem, ciò che rimane invariato di una persona nel tempo, e l’ipse, la dimensione di cambiamento e crescita che caratterizza una persona. L'identità narrativa unisce queste due dimensioni, permettendo alle persone di comprendere chi sono attraverso le storie che raccontano sulla propria vita, conciliando stabilità e trasformazione.
Di più: sempre seguendo Ricoeur, le storie non sono solo individuali, ma anche sociali. La capacità di raccontare storie è legata al dialogo con gli altri e alla possibilità di condividere e comprendere esperienze diverse dalla propria. La narrazione è quindi un atto intersoggettivo che permette l'incontro e la comprensione reciproca tra persone.
I robot e le intelligenze artificiali (AI) possono imitare comportamenti umani, raccontare storie e persino apprendere preferenze. Tuttavia, queste attività rimangono processi di elaborazione dati, mancando della dimensione emotiva sentita. Una macchina può creare una storia basata sui dati raccolti, ma questa storia non può rappresentare un progetto autobiografico: non è il risultato di paure, desideri, affetti, dell'esperienza soggettiva vissuta e dell'interazione continua con il mondo attraverso un corpo. Filosofi come John Searle hanno sostenuto che un'AI non ha una coscienza fenomenica – la consapevolezza soggettiva delle proprie esperienze – e quindi, per quanto complessa sia la sua programmazione, non può davvero "provare" emozioni, ma solo simularle in modo funzionale o comportamentale.
Tra esseri umani, provare un'emozione implica un'esperienza soggettiva e fenomenica. Quando una persona si sente felice o triste, sono coinvolti cambiamenti fisiologici, come un aumento del battito cardiaco o una sensazione di calore, stati interiori, pensieri. Questi aspetti fenomenologici – noti anche come qualia – sono parte integrante dell'esperienza emotiva. Le emozioni umane sono poi intenzionali, cioè hanno un oggetto o uno scopo specifico. La rabbia, ad esempio, è spesso diretta verso qualcuno o qualcosa, e la gioia riguarda una situazione specifica o una relazione significativa. Questa caratteristica intenzionale delle emozioni è strettamente legata alla capacità umana di attribuire significato alle esperienze e di collegare le emozioni al proprio contesto di vita (se ti interessa approfondire, qui parlo di che cosa sono le emozioni). Le AI, d'altro canto, mancano di questo tipo di intenzionalità. Possono imitare un'emozione comportandosi in modo appropriato rispetto a un determinato input, ma un chatbot che risponde a una domanda con empatia non "sa" davvero cosa sia l'empatia, né ha un motivo specifico per provare quella emozione; sta semplicemente seguendo una serie di algoritmi che determinano la risposta appropriata.
Ciò che differenzia la coscienza e l'identità umana da una simulazione realizzata da un’intelligenza artificiale sembra essere proprio la dimensione soggettiva dell’esperienza: non si tratta solo di elaborare dei processi mentali, ma di essere in un corpo vivo, che interagisce con il suo ambiente e con una cultura di appartenenza che influenzano percezioni, emozioni e pensieri. Si tratta, insomma, di essere vivi. Anche i robot più avanzati, sebbene possano avere sensori e attuatori per interagire con l'ambiente, non vivono esperienze emotive o corporee nel modo in cui lo fa un essere umano. L’AI può elaborare informazioni e simulare risposte emotive, ma queste simulazioni non corrispondono a una soggettività vissuta umana. Più che dirci qualcosa sulla possibilità di una nuova coscienza artificiale (che non siamo comunque in grado di negare), gli sviluppi attuali dell'AI e della robotica ci costringono a riflettere su ciò che rende unica l'identità umana.
Questi sono temi enormi e oggi anche urgenti, che rendono abitare questo tempo più che mai difficile. Cioè, tu ci dormi la notte? Per me è sempre più chiaro che non è ragionando analiticamente e logicamente che troverò una risposta soddisfacente. La domanda non è solo se un'AI possa essere "come noi", ma se noi, come esseri umani, possiamo vivere pienamente la nostra umanità. Che cosa ci rende davvero vivi? Che cosa ci rende davvero umani?
Sono da poco tornata in Italia e mai come adesso mi è chiaro che non devo ricadere nella trappola di ignorare quel richiamo alla parte più autentica di noi stessi che ho cercato di assecondare in questi mesi, un richiamo che porta la ricerca di un senso oltre la comprensione razionale e trova la sua realizzazione nella connessione profonda con gli altri: con la natura, con gli animali, con gli altri esseri umani, accettandone la fragilità, la complessità, la bellezza, il mistero.
La risposta non è la perfetta simulazione della vita, ma la vulnerabile autenticità della relazione. Se c'è una cosa che l'AI mi ha insegnato, è questa: come essere umano, io mi realizzo non quando simulo di essere viva, ma quando vivo per davvero.
La filosofia analitica e la filosofia continentale si distinguono per approccio, metodo e stile. La filosofia analitica, sviluppata da pensatori come Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein e Willard Van Orman Quine, si concentra sull’analisi logica del linguaggio, sulla precisione concettuale e sulla risoluzione di problemi specifici attraverso il rigore formale. Questo approccio è influenzato dalle scienze e dalla logica matematica, privilegiando uno stile di scrittura chiaro e diretto. La filosofia continentale, invece, rappresentata da filosofi come Martin Heidegger, Jean-Paul Sartre, Michel Foucault e Jacques Derrida, si focalizza su temi esistenziali, storici e sociali, come l’essere, la soggettività e il potere. Più che risolvere problemi isolati, la filosofia continentale esplora le condizioni umane e culturali, adottando un linguaggio più denso e riflessivo, spesso con un forte legame alla storicità e alla critica sociale. Mentre la filosofia analitica tende a privilegiare l’oggettività e il distacco, la filosofia continentale esplora la complessità della soggettività e della narrazione storica.
A partire dalla dialettica di medesimezza ed ipseità, Paul Ricoeur definisce l'“identità narrativa” come combinazione dei due poli della permanenza e del cambiamento; tale mediazione si trova nella costruzione dell'intreccio e nel suo supporto, il personaggio.
Bellissimo articolo!
Una cosa che hai tirato fuori che è molto vicino al mio cuore e'..cosè che ci rende essere umani ?( il problema non è che AI &Co diventerano come noi, ma noi sempre di più come le machine, technologie e devices che usiamo- temo questo è il pericolo più grande).
Mi piace pensare che quello che ci rende umane è tutto quello che non può essere quantificato o produrre profito.
3 silly examples - a sense of humour. Play. Celebration.
Vorrei dedicare tempo non a produrre, ma a scambi e risate con chi mi sta vicino. Preferably, being in Italy, with a glass of wine.
Complimenti per il tuo rigour in writing.
(Perdonami sbagli di italiano!)
Bellissimo questo pezzo, Daria. L'identità è un tema che mi tocca da molto vicino e tu hai saputo trasmettere i concetti in maniera molto chiara e profonda. Grazie 🩵