Sono tornata in Italia e non è stato facile metabolizzare la decisione, che io e Fabio abbiamo preso insieme, di restare. Un anno fa ne avevamo presa un’altra, forse ancora più importante: quella di dare le dimissioni e partire. Ho ricominciato a scrivere questa newsletter con la promessa di raccontare, nel modo più onesto possibile, che cosa succede dopo una scelta del genere e ora mi sembra giusto condividere un bilancio personale.
Per farlo in modo che abbia un interesse anche per chi si sente lontano da esperienze come la mia, ho raccolto un po’ di domande a cui vorrei provare a rispondere. Spero che l’impianto inevitabilmente biografico non risulti troppo autoreferenziale: non mi interessa esibire, ma esporre, ossia dare spazio a questa esperienza ora che si presenta come compiuta, attraverso un esercizio di introspezione condiviso. Raccontare un po’ della mia vita qui, per me, non serve solo a dare contesto a chi legge senza conoscermi personalmente, significa soprattutto mettere alla prova le convinzioni implicite e i miti inconsapevoli che utilizzo per provare a costruire senso. Spero che la lettura di questo esercizio aiuti a normalizzare i percorsi non lineari.
Iniziamo1.
Q: Che esperienze hai fatto nella vita che ti hanno preparato la strada per questa scelta?
Sono cresciuta sull’Appennino emiliano, in provincia di Modena. Dalle medie in poi mi sono sentita spesso fuori posto. Quando mi sono trasferita a Milano per studiare filosofia, la mia grande passione, da un certo punto di vista sono rinata. Sono rimasta dopo la laurea per lavorare in editoria grazie al boom del digitale, ma alla fine dei miei vent’anni ho avuto due problemi di salute abbastanza grossi. Ne sono uscita. Sono sempre stata piuttosto soddisfatta della mia carriera, non altrettanto della mia maturità emotiva: ero irrisolta nel mio rapporto con il maschile e non riuscivo a volermi bene davvero. Ho sempre studiato molto, in generale le scienze umane e sociali, poi negli ultimi anni lo yoga, grazie a cui ho ritrovato una connessione profonda prima con il mio corpo, poi con la natura. Non sono mai stata una persona religiosa, ma ho sempre avuto un certo tormento spirituale: sono cresciuta con un approccio riot nei confronti della Chiesa Cattolica, ma invidiando molto chi aveva fede. L’avrei voluta anche io. Uno dei miei professori di teologia, Vito Mancuso, al termine di una serie di colloqui in cui non riuscivo a darmi pace, mi ha detto: “la fede non è qualcosa che puoi trovare da sola, è un dono di Dio”. Dono non ricevuto. Sono stata in analisi diversi anni, con due diversi terapeuti, e mi è servito tantissimo per imparare a conoscermi di più e capire come stare meglio. Ho sempre amato viaggiare e ho imparato a farlo da sola. Ho sempre avuto una forte propensione al rischio, molta determinazione, poca pazienza. Ho passato il lock down in un bilocale e in uno strano labirinto emotivo, ne sono uscita grazie a poche, profonde amicizie che mi hanno tenuta a galla. Quando è finito, ho comprato un van con cui ho girato per festival musicali e seminari di danza e teatro. Poi mi sono accorta che forse avevo esagerato - pauperismo a costi altissimi - e l’ho rivenduto. A un certo punto, emozioni stagnanti hanno trovato il giusto allineamento e la loro via di uscita. Sono riuscita a darmi il permesso di innamorarmi sul serio. È arrivato Fabio. Siamo partiti, forse più di ogni altra cosa, per fame di vita, di libertà, di amore. Ma se non ci fossimo incontrati in quel momento, credo che avrei finito per fare la stessa scelta da sola.
Q: Non ti sei sentita in colpa nei confronti della famiglia quando hai deciso di partire?
No. Dagli ultimi dati Istat, emerge che in Italia sempre più giovani maggiorenni vivono con i genitori: due under 34 su tre. Se è chiaro che il lavoro non basta e servono stipendi più alti, proporzionati al costo della vita, è anche chiaro che c’è un problema culturale che intrappola le famiglie italiane. Senza citare il familismo amorale, è abbastanza evidente che vivere in casa con i genitori fino a un’età avanzata è socialmente accettato, quando non incoraggiato. A volte sembra quasi che lasciare casa significhi abdicare ai doveri di figlio, alle responsabilità nei confronti della famiglia di origine: sei un ingrato, sentiti in colpa.
A questo proposito, credo sia interessante citare un fenomeno opposto in crescita negli Stati Uniti, e probabilmente non solo: l’estraniamento familiare, ossia un processo, che può essere temporaneo o permanente, in cui una persona decide di interrompere i rapporti con la propria famiglia di origine o con alcuni suoi membri. Se ne parla in modo approfondito nel libro Rules of Estrangement di Joshua Coleman, uscito per Penguin a settembre. Questo fenomeno, storicamente considerato un tabù, sta guadagnando riconoscimento come scelta salutare per limitare relazioni percepite come dannose, come evidenziato e problematizzato dal New Yorker e dal New York Times.
Alla luce di questi due estremi, mi sento di dire che la famiglia possa e debba essere, per chi decide di partire, una base sicura a cui poter liberamente tornare, non una prigione da cui scappare o in cui restare intrappolati. La mia famiglia d’origine è tutto tranne che perfetta, ma è per me questa base.
Q: Quanti anni hai? Quando è troppo tardi per un anno sabbatico o per iniziare a vivere in viaggio?
Ne ho 38 e non è mai troppo tardi. Non solo perché la vecchiaia è un’invenzione culturale e un prodotto della storia materiale, soggetta a continui cambiamenti e reinterpretazioni. Anche perché gli expat di oggi non appartengono a un’unica categoria, rappresentano invece un insieme eterogeneo di persone con età, origini, motivazioni, stili di vita e possibilità economiche molto diverse. C'è chi parte perché nel suo paese di origine non si sente abbastanza valorizzato lavorativamente e chi perché non riesce più a mantenersi. C’è chi investe sulla propria formazione e chi sulla propria vita sentimentale. C’è chi si sposta in paesi in via di sviluppo per dedicarsi al volontariato o a progetti di vita più sostenibili. Chi è spinto da bisogni spirituali che in Occidente ormai siamo abituati a sbeffeggiare. C’è chi, dopo essere diventato un creator perché viaggiava, viaggia perché è diventato un creator (ma come fai a perderti se hai 600 mila persone che ti seguono?). Ci sono giovanissimi senza ragione di restare dove sono cresciuti e non più giovani che vogliono invecchiare da un’altra parte, approfittando dei Retirement Visa. Insomma, qualunque sia la tua idea sullo stereotipo del viaggiatore che “molla tutto e se ne va”, cancellala. Potresti davvero essere tu, chiunque tu sia, se ti va. Io per esempio non avrei mai potuto farlo quando ero più giovane, durante gli studi o nei miei primi anni di carriera. Per come sono fatta io, ho bisogno di tutelare una certa sicurezza economica che mi sono dovuta prima guadagnare e che per me significa soprattutto autonomia e indipendenza, due valori a cui non sono disposta a rinunciare. Allo status sì, a quello posso rinunciare.
Q: Sei partita perché eri in burnout?
Sono partita per realizzare un sogno, e dovremmo interrogarci sul fatto che in certi ambienti questo paia una cosa così strana. Quando ho preso questa decisione e ho iniziato a condividerla, a molti è sembrata poco comprensibile. In Italia è abbastanza raro conoscere di persona qualcuno che ha fatto una cosa del genere e non è stato facile uscire dalla retorica pubblica della privilegiata o dell’esaurita. “Beato chi se lo può permettere” o “Non ce la fa più”. Due cose vere, ma non essenziali. Mi sono preparata finanziariamente grazie alle mie risorse personali, quindi sì, me lo potevo permettere, e davvero no, non ce la facevo più, non tanto a lavorare - ho la fortuna di avere sempre amato il mio lavoro - quanto ad avere il vincolo, non solo spaziale o aziendale, ma proprio culturale, di dover stare in un contesto lavorativo che stava cambiando e non mi rappresentava più, perché stavo cambiando anche io. Ma sarebbe sbagliato pensare di me che ero particolarmente privilegiata o particolarmente esaurita. Nel contesto milanese, ero mediamente privilegiata e mediamente esaurita, sia rispetto a chi decide di restare, sia rispetto a chi decide di partire. Avevo bisogno di un cambiamento, tutto qui.
Q: Finanziariamente, il tuo bilancio 2024 è positivo o negativo? Quanto ti è costato in totale questo anno in viaggio?
C’è una gag tra me e Fabio che ci accompagna da quando siamo rientrati in Italia. Se ascolti me, sembra che abbiamo vissuto nell’umiltà e nella miseria. Se ascolti lui, sembra che abbiamo vissuto nell’agio e nel lusso. Sono vere entrambe le cose: non abbiamo distrutto il capitalismo e non abbiamo salvato il mondo. Essendo in due, abbiamo goduto di alcuni vantaggi e abbiamo cercato di contribuire, ma ci siamo concessi anche più di quanto avremmo speso se avessimo viaggiato da soli. Personalmente, non mi sono fatta mancare niente al grido di “quando mi ricapita”, con l’unico vincolo di rispettare il budget iniziale che mi ero data: 1500€ al mese. 18.000€ l’anno, più altri 5000€ come budget straordinario da toccare solo in caso di emergenze o se ne entravano altrettanti. Questa cifra include tutte le spese, dall’affitto ai voli, dal cibo alla formazione, dai vizi agli sfizi. In viaggio, non hai costi fissi, sono tutti variabili, ed è più facile aggiustarsi in corsa. Non ci siamo fatti mancare niente, questa è la verità2, e c’è un tremendo vantaggio economico nel partire con risparmi maturati in Europa da spendere in Asia. Con la stessa cifra avremmo avuto un tenore di vita molto più basso in Italia. Si chiama gentrificazione e ne siamo vittime e carnefici insieme - ci torno a breve. Aggiungo però un aspetto importante: ha pesato sulla decisione economica anche una piccola analisi di diversi scenari, che mi ha aiutato a mettere nero su bianco che se anche avessi continuato a fare la stessa vita e a risparmiare, non è che avrei potuto realizzare molti altri progetti, né nel breve, né nel medio termine: una casa più grande?3 Non nella stessa zona4. Più viaggi, più lunghi? Non con lo stesso lavoro5. L’idea di fare dei figli? Non nella stessa città6. Per quanto fossi in una situazione economicamente vantaggiosa, non erano molti gli altri investimenti economici che avrei potuto fare senza altrettante rinunce e con lo stesso ritorno esistenziale.
Q: Ti definisci una nomade digitale?
In un certo senso, sì. Gli studi volti a definire questo fenomeno identificano quattro categorie di nomadi digitali: i classici freelance, specialisti verticali di un segmento che gestiscono in autonomia la propria attività; gli imprenditori, responsabili di infrastrutture aziendali con collaboratori e dipendenti; i dipendenti, assunti da un’azienda con un contratto di lavoro e uno stipendio fisso; gli sperimentali, aspiranti freelance o imprenditori, che però non hanno ancora iniziato a guadagnare o generare entrate; i pensatori (armchairs digital nomads), coloro che stanno valutando la possibilità di diventare nomadi digitali nei prossimi tre anni. La categorie che cresce più in fretta è quella dei dipendenti, visto come sta cambiando il mondo del lavoro nel contesto post-pandemia.
Io penso di rientrare nella categoria degli sperimentali, perché ho dedicato la maggior parte dell’ultimo anno alla mia formazione. Ho potuto gestire dei progetti di comunicazione lavorando da remoto e ho iniziato a offrire dei percorsi individuali online di yoga e meditazione per chi vuole imparare a costruirsi una pratica personale di introspezione. Ma non stiamo parlando di entrate fisse o sufficienti e in ogni caso le ho sempre affiancate ad attività di volontariato, da quello più classico con associazioni che aiutano le popolazioni locali in difficoltà (ne ho parlato qui), a quello che abilitano piattaforme come Workaway. A gennaio per esempio ho insegnato yoga due volte al giorno, di persona, tutto il mese, in cambio di vitto e alloggio. Credo che partire rinunciando per la prima volta nella vita a un reddito da lavoro fisso sia un doppio salto, molto diverso dal partire con un lavoro garantito, full time e full remote, che io al momento non ho.
Q: Quanti privilegi bisogna aver per poter fare la tua scelta?
Molti. La salute fisica e mentale, il passaporto con cui viaggi, la moneta con cui effettui i pagamenti, la tua condizione economica di partenza, gli studi che hai avuto la possibilità di fare, il genere, l’orientamento sessuale… Nomad List ha stilato il profilo del “nomade digitale medio”: giovane, maschio, bianco, eterosessuale, single, non religioso, laureato, con uno stipendio medio di 85 mila dollari l’anno e la possibilità di lavorare da remoto. Mecojoni. Io non ci rientro per molti aspetti, per altri sì. Vice ha raccontato le storie di alcuni profili “non conformi” che fanno capire bene perché il desiderio di scoprire e integrarsi con le culture locali dei nomadi digitali spesso venga bilanciato dal bisogno di ricreare delle bolle di privilegio, più progressiste e liberali.
Q: Che cosa ne pensi dell’impatto dei nomadi digitali sulle comunità locali?
È molto complesso e per certi aspetti drammatico. Innanzitutto per le dimensioni del fenomeno, che dopo la pandemia è cresciuto vertiginosamente: solo negli Stati Uniti il numero di nomadi digitali ha raggiunto i 16,9 milioni, in aumento del 131% rispetto al 2019 (Nomading Normalizes in 2024, report di MBO Partners). I lavoratori dipendenti da remoto erano 3,2 milioni nel 2019 e 11,1 milioni nel 2022. Stanno cambiando le condizioni strutturali del lavoro e questo ridisegna i flussi migratori, non ridurrei il fenomeno al dilemma individuale, che gioca un ruolo sì, ma sul piano etico. Io credo ci sia innanzitutto un problema politico che tocca i temi legati alla cittadinanza, all’organizzazione degli spazi pubblici, alla distribuzione della ricchezza, al melting pot culturale che si viene a creare e che tocca il sistema di valori di tutte le comunità coinvolte. Una tale crescita sta attirando l’attenzione dei governi, sia di quelli dei paesi di partenza, sia di destinazione di questi nuovi flussi migratori. Se subito dopo la crisi Covid il ritorno degli stranieri è stato accolto con grande favore, ora è chiaro che il fenomeno è diverso da quello del turismo e va regolamentato diversamente dal punto di vista amministrativo, fiscale, sanitario, tant’è che stanno nascendo visti appositi per nomadi digitali.
Un paradosso beffardo è quello per cui chi diventa nomade digitale a causa dei prezzi delle abitazioni nel suo paese di origine, con la propria presenza in luoghi meno ricchi contribuisce a restringere il mercato immobiliare, turbando profondamente gli equilibri locali. Tim Ferris lo ha chiamato “geo-arbitraggio” e succede dove non c’è allineamento tra il trend di crescita del costo della vita e la stagnazione del valore dei salari, tipo in Italia.
Personalmente mi causa non poche turbe, ma è un problema che necessita di soluzioni sistemiche e strutturali, non individuali, perché se è vero che ognuno fa i conti con le proprie scelte, io penso che il diritto di spostarsi per migliorare le proprie condizioni di vita vada tutelato, a tutti i livelli. In Europa, in particolare, mi pare evidente che siamo vittime e carnefici della gentrificazione globale e non mi è affatto chiaro come, e se, se ne possa uscire.
Q: Ci sono stati momenti in cui saresti voluta tornare indietro?
Neanche uno. Ci sono momenti in cui senti che sei pronto a partire per la tappa successiva, questo sì.
Q: Quando sei partita sapevi già quando o se saresti tornata? Hai mai pensato di non tornare?
Quando sono partita non sapevo se sarei tornata o no, ma ammetto che speravo di non tornare. Avevo tutta l’energia proiettata in avanti e dedicata a immaginare il mio personalissimo futuro altrove. Non tornare è stata una fantasia con cui ho giocato tutto il tempo, ma mi sono sforzata di non fare piani, di non crearmi troppe aspettative, di lasciarmi contagiare da quello che mi succedeva attorno. Sapevo però che l’anno sarebbe stato il giro di boa, sia per ragioni economico-amministrative sia per ragioni affettive.
Q: Perché sei tornata?
Questa è la domanda più difficile. Durante l’ultima parte del viaggio io e Fabio abbiamo iniziato a discutere di come sarebbe stato meglio procedere, se continuare con un approccio nomade oppure provare a stabilizzarci da qualche parte. Siamo partiti con un itinerario ipotetico in mente, ma ci siamo sempre lasciati trasportare dalle varie opportunità che si sono presentate lungo il percorso. Vietnam, Nepal, India del Nord, Laos, Malesia, Australia: sono tutti paesi che nominavamo spesso all’inizio, ma poi ci siamo resi conto che non aveva senso viaggiare per completare una lista e l’ansia di perdersi delle opportunità piano piano ha lasciato spazio al desiderio di viversi i posti con una certa calma, in una modalità più immersiva e meno estensiva7. Abbiamo pensato di trasferirci in pianta stabile in Thailandia, per molte ragioni diverse che riguardano la terra e il popolo che la abita, ma anche le nostre affinità personali con esperienze che la Thailandia offre in modo accessibile, che altrove non ci saremmo potuti permettere. Senza sottovalutare il rilascio dei nuovi Long Term Visa per nomadi digitali. Ci siamo lasciati scoraggiare dalla mancanza di garanzie su un investimento economico per l’affitto a lungo termine di un terreno, che abbiamo valutato seriamente. Ci siamo lasciati scoraggiare abbastanza presto, nell’iter di raccolta informazioni, perché non ci abbiamo creduto sul serio. Una parte di me non era del tutto convinta. Mi duole ammetterlo, ma ho sentito un richiamo che mi ha trattenuto. Ho avuto paura che il mio sviluppo personale sarebbe stato limitato se avessi piantato radici in un terreno diverso dalla mia cultura di origine, come se sapessi che non sarei potuta andare abbastanza a fondo nella comprensione delle cose, nella qualità delle relazioni, nell’interpretazione degli eventi. Come se la distanza culturale, prima che linguistica, mi potesse condannare a una superficialità logorante rispetto alla capacità di penetrazione che avrei nella mia tradizione di appartenenza, che magari non è solo l’Italia, magari è l’intero Occidente, ma ci sono dei problemi che mi stanno a cuore su cui non avrei potuto continuare a ragionare con le stesse lame intellettuali che ho trascorso gli ultimi trent’anni ad affilare.
Mi sono immersa quanto più possibile in scuole di pensiero che ti incoraggiano ad astrarre dalla tua condizione storica e a stare con quello della tua situazione esistenziale che ti accomuna a tutti gli altri esseri viventi. Funziona. Ti senti meglio. Ma non mi basta. Il bìos è gràphos direbbe qualcuno, ma non complichiamo ulteriormente. È che sento anche il bisogno di ritornare alla mia dimensione storico-culturale di origine, di non abbandonarla. Il paradosso di uscire dal proprio contesto e immergersi in culture altre per me funziona come tensione verso un punto esterno da cui poter voltare lo sguardo su di sé, ma non posso fingere di poter spostare il mio centro oltre dati confini senza dissolvermi, senza sentirmi spaesata. C’è un livello di introspezione a cui l’adozione culturale è difficile. Ci si può lasciare contaminare, ma non si può uscire dalla propria esperienza.
Nonostante questo, non ero ancora pronta a tornare. Mi stavo preparando, ma non ero assolutamente pronta. Mi sono iscritta a una scuola di counseling ad orientamento filosofico in Italia, con l’idea di frequentarla da remoto e continuare a viaggiare, per poter tenere i piedi in due scarpe ancora per un po’. Qui però entra in scena Fabio, una novità per me che prima di incontrarlo avevo imparato così bene a pensarmi da sola. Ho dovuto disimparare, intrecciare le mie esigenze alle sue e scoprire come vivere questo intreccio nella forma di un arricchimento, non di una rinuncia. Lui si è trovato in una situazione diversa dalla mia, e abbiamo deciso insieme di fermarci in Italia.
Q: Pensi che sia facile rientrare nel mondo del lavoro dopo esserne usciti per un anno?
Ecco, per Fabio è stato molto facile. Ci sono aziende davvero smart, capaci di inquadrare il valore e attirare il talento anche abbandonando criteri di selezione ormai obsoleti, e mi auguro siano sempre di più. Abbiamo iniziato a muoverci con un certo anticipo, rispetto allo scadere dell’autonomia economica, per pianificare le entrate del periodo successivo. Entrambi credevamo che ci sarebbe voluto più tempo per trovare una soluzione. Invece è andata molto bene e lui si è già reinserito in azienda con una soluzione che gli permette di lavorare da remoto, dall’Italia.
Ciò non toglie che in Italia la pausa di carriera è ancora vista con un certo scetticismo. Se individualmente, per come è fatto il mondo del lavoro oggi, è certamente un azzardo, oltre che una decisione antieconomica, a livello strutturale mi pare evidente che qualcosa deve cambiare nel modo in cui concepiamo la sequenza giovani-scuola, adulti-impiego, anziani-pensione.
Il costante invecchiamento della popolazione, la rapida innovazione tecnologica, la crisi del mercato del lavoro e del sistema pensionistico sono fattori che rendono inadeguato il modello tradizionale basato su un percorso lineare, quello che inizia con la formazione, prosegue con la carriera lavorativa e si conclude con la pensione, e in cui l’inizio di una fase presuppone la fine della fase precedente. È un sistema che sta collassando, ed è urgente pensarne uno più flessibile, che preveda aggiornamenti continui delle competenze e forme di lavoro adattabili alle diverse fasi della vita, che non sono solo tre e non sono come ce le siamo raccontate finora.
Trascorrere un periodo della propria vita in viaggio è un modo di valorizzare e coltivare la multidimensionalità dell'essere umano. Ci sono sicuramente contesti organizzativi in cui questa multidimensionalità non è apprezzata, e sono esattamente quelli da cui vorrei tenermi alla larga.
Q: È stato più difficile mollare tutto, o tornare alle origini? E come sta Daria oggi?
È stato molto più difficile tornare. Quando sono partita ero pronta, quando sono tornata no. Cerco di viverlo come un nuovo-nuovo inizio, in fondo lo è davvero. Al netto del momento di shock da superare, sto immensamente meglio rispetto a come stavo prima di partire.
Q: La nuova Daria come percepisce la Daria dell’anno scorso?
Come un doppio che è rimasto qui prima che io partissi. Ecco perché ho scritto Dematerializzarsi. Spero di non dovermici scontrare ora che sono tornata. Le voglio molto bene, le sono molto grata, le ho perdonato molte cose. Tranne di aver lasciato a casa le bottiglie di olio extravergine di oliva, quelle servivano più del giubbotto Patagonia!
Q: Proverai a rientrare nel tuo vecchio ambito di lavoro o senti di aver definitivamente voltato pagina e vuoi buttarti in un nuovo campo?
Per me adesso la parola chiave è integrazione: ho bisogno di assimilare tutto quello che ho coltivato, farlo mio e reinvestirlo, ora ho più chiaro quali aspetti della mia storia professionale voglio valorizzare e cosa è il momento di lasciarmi alle spalle. Nello yoga, è quello che succede in savasana, la posizione che permette a corpo e mente di assorbire gli effetti della pratica, evitando facili ricadute in solchi già tracciati. Per me non c’è un dopo uguale al prima, alcune cose sono già cambiate e altre cambieranno, ma in fondo dovrei essere ancora la stessa persona. In qualche modo, mi assomiglio sempre.
Q: Ora che ne hai realizzato uno immenso, che rapporto hai con i sogni che avevi per te? E come sono cambiati i sogni che hai ora per te?
Questa domanda coglie una sfumatura delicatissima del mio stato mentale attuale, che ancora non riesco a interpretare bene, ma che ha proprio a che fare con il cambiamento dei sogni. Alcune porte si sono spalancate e sono rimaste aperte. Altre, prima socchiuse, si sono chiuse del tutto. Mi devo abituare al nuovo clima.
Q: Qual è la lezione più importante che hai imparato?
Barbossa: Il mondo era un tempo un posto più grande.
Jack Sparrow: Il mondo è sempre uguale, è il resto che è più piccolo.
Il mondo è grande. A volte può sembrarci che non sia più così, ma il mondo è ancora grande. È la nostra percezione che tende a ridursi, nonostante tutto. Viaggiare è una delle esperienze che più di tutte aiuta ad ampliare, trasformare, mettere in discussione la nostra stessa percezione, deautomatizzarla, il che permette di andare più a fondo nell’esperienza quotidiana. Il modo in cui osserviamo il mondo è un prodotto della nostra storia, cultura, biografia. Lo sappiamo, ma tendiamo ad agire come se non lo sapessimo. Per ricordarcelo, a volte occorre lasciarsi toccare da vite diverse. Gli sguardi degli indiani del dharavi sulla tua pelle bianca, mentre cuciono le valigie che compri su Amazon, in una città senza rete idrica. Un ragazzo singalese che ti chiede se gli spedisci una mela o un’arancia dall’Italia, per il suo bimbo di tre anni. L’insegnante di yoga che sua figlia l’ha persa, e non è mai più tornata in Francia. La ballerina laureata in psicologia che non trova lavoro in Europa e ha avuto un infortunio, ora viaggia da sola. La ragazza che ha perso entrambi i genitori e una casa dove tornare non ce l’ha. Il massaggiatore che viaggia con un solo zaino, quello per il suo strumento musicale: “Priorities”. Le coppie di pensionati espatriati in Thailandia che fumano erba tutto il giorno. Quel bimbo che si attacca a te come una scimmia e ti stringe fino a farti male con le sue unghiette sporche e la bava alla bocca, mentre urla di dolore: lo hai portato a medicarsi un piedino, quasi marcio. Lo stesso bimbo quando poi, più tardi, lo lavi con l’acqua e un po’ di sapone, e lui ancora si appoggia a te. Questa volta vi calmate insieme. Il sessantenne americano che scoppia in lacrime ricordando il figlio thailandese morto in America: si sente in colpa per averlo fatto vivere in un paese dove il bambino era discriminato. La moglie del pescatore quando ti vede arrivare, dopo che suo marito ti ha invitato da loro a prendere un tè, per ripararti durante il temporale. Solo che nella loro casa ci piove dentro. Il suono del tuk tuk che porta il pane, diverso da quello che vende il gelato. La respirazione olotropica. Lo yoga kundalini. La foto profilo in divisa militare del ragazzo israeliano nel gruppo whatsapp di ashtanga. Le sorelle cinesi che suonano lo jambe e whatsapp non ce l’hanno. La meditazione zen. L’incontro di Muay Thai. L’elefante che ti attraversa la strada. Migliaia di volpi volanti che escono dalle mangrovie al tramonto. Il pirata indonesiano che insegna al bambino danese le parolacce in giavanese. L’origami che ti ha regalato il cuoco al ramen bar sotto casa. Ho sempre cercato di essere lucida, critica e autocritica, di evitare ritratti idealizzati o inquadrature forzate, nel raccontare questo viaggio. Ma è stata davvero l’esperienza più bella della mi vita.
Ho raggruppato diverse domande simili ricevute attraverso Instagram, Linkedin, Substack e interazioni offline. Grazie a tutti quelli che me le hanno fatte <3
Si può spendere molto poco vivendo in viaggio, lo documenta bene Vincenzo Rizza nella sezione “spese di viaggio” del suo blog.
Più grande rispetto a 38 metri quadrati in due.
Zona Isola, un quartiere in cui ho vissuto più di dieci anni, a cui ero e sono molto affezionata, che mi ha permesso di digerire meglio la città di Milano e eche è cambiata moltissimo nel frattempo.
Ero manager dell’area Innovazione del Gruppo Gedi, non una libera professionista o altro.
Entriamo in un ambito molto personale, magari ci torno in un altro numero, ma ho proprio realizzato che se anche avessi voluto o potuto avere dei figli, non li avrei voluti crescere a Milano.
Il che, tra l’altro, genera momenti imbarazzanti quando ti confronti con i turisti che visitano gli stessi posti in vacanza: mentre loro prendono due voli, tre traghetti, quattro autobus e visitano tutte le attrazioni nel raggio di 100 km, tu ti sei ricreato una tua routine personale fatta di angoli di natura natura, rituali di cibo, attività fisica, studio, locali di fiducia.
Vero, in Italia è raro passare il messaggio che stai partendo per curiosità e voglia di esplorare il mondo. A me è spesso stato detto: scappi dai tuoi problemi. Ma in realtà partire è stato proprio un modo di analizzare, capire, accettare…
Hey, anche io voglio fare lezione di parolacce col pirata indonesiano! 🏴☠️
Articolo molto, molto approfondito sulla natura del viaggio, del rientro e - cosa che mi ha colpito tanto - sul mondo delle aziende italiane. Grazie Daria!